24 novembre 2006

La birra è un sogno?


Pellegrinaggio al Bi-Du di Rodero (Como) qualche sera fa. L'uscita da Milano, al solito, è stata da esodo ferragostano. Un intruppamento di formiche impazzite alla ricerca del formicaio perduto. Ma vabbé, il lavoro è lavoro (si fa per dire...). Trovato il posto, grazie al mio navigatore-fidanzata, è stato bello rivedere Beppe Vento e sapere che in Italia abbiamo un programmatore in meno e un birraio in più. Soprattutto un birraio come lui. Non dico niente di nuovo se affermo che le sue sono birre buonissime. Da bere e da ribere, non solo da assaggio stupito come a volte capita. A me personalmente questi approcci intellettualoidi mi lasciano perplesso. Ci si può togliere la sete, la soddisfazione (e la mia non è propriamente in misura extrasmall) e allo stesso tempo perdersi in sensazioni aromatiche complesse e istruttive. Soprattutto se c'è ancora qualcuno che crede che la birra sia solo una roba frizzante, alcolica e con la schiuma. La Rodersch di Beppe è intrigante come poche chiare sanno essere: profumatissima di fiori e di zucchero a velo, ma con una persistenza amara e leggermente acidula che, appunto, ti obbligano a chiederne un secondo bicchiere. La Jehol è bella rotonda, saziante in un certo senso, la Confine ottima dalla mattina alla sera, con una netta impronta di caffè che risveglia. E la Xtrem? Inquietante perché non ci si rende subito conto del suo tenore alcolico e al primo sorso senti la musichetta ossessiva che segnalava l'arrivo del "grande bianco" nel film Lo Squalo. Beppe imbottiglia tutto, quindi oltre a bere, si può fare un minimo di scorta da portare a casa... Mi è mancata la Ley Line, purtroppo. Beppe dice che la ricetta se l'è sognata una notte e poi la messa nero su bianco. Parlo solo di quello che ho assaggiato. Però, Beppe, continua a sognare così... (www.bi-du.it)

21 novembre 2006

Forza Livorno!


Premesso che, a me, del calcio non me ne frega assolutamente niente. E che trovo ridicolo e avvilente spendere dei soldi per andare a vedere dei miliardari che prendono a pedate una palla; la notizia che la squadra toscana del Livorno abbia una birra ufficiale e che questa birra sia artigianale, non può non farmi piacere... Gliela produce la Spring di San Marino, più nota per la sua linea Amarcord (quella dai nomi felliniani come La Tabachera, la Putena e via andando), ma che offre un servizio personalizzato, almeno per quanto riguarda l'etichetta, a chiunque. Una cosa simile la fanno anche in Gran Bretagna dove chi vuole può farsi mettere in etichetta l'anniversario di matrimonio, la laurea o semplicemente se stesso in tutto il suo splendore. Iniziative commerciali senza dubbio, non è il caso di andare a spaccare il capello in quattro sulla qualità. tanto più che la suddetta birra si troverà in vendita solo a Livorno e dintorni, ma meglio di niente. Ed ecco che mi trovo quindi a dover mormorare, urlare non posso visto che le origini nemmeno tanto lontane della mia famiglia sono empolesi, un bel "forza Livorno!".

18 novembre 2006

Novello? E' nato vecchio...



Novello primo vino dell'anno? Lo pensavo fino al 20 ottobre scorso quando, all'Esselunga di Milano, mi sono imbattuto in un Gamay firmato nientemeno Paul Bocuse e in un Canaiolo, rosso toscano Igt, di Villa Artimino. I vini erano in vendita quasi 15 giorni prima dell'immissione legale del Novello. Entrambi riportavano ben evidente l'anno della vendemmia: il 2006. Confesso che la cosa mi ha colto impreparato ma, visto anche il prezzo, ho deciso di portarmene a casa una bottiglia per tipo. Oggi ho assaggiato il Canaiolo. Un bel tappo originale della Silicon Valley per un vinello-bibita che sa di uva e poco altro. Non che faccia schifo per carità, solo che lo si dimentica dieci secondi dopo averlo deglutito. Magari è un merito....

Mi lascia perplesso però questa (neonata?) corsa contro il tempo. Già il Novello era un bel parto prematuro, adesso si rischia di esagerare. Per che motivo poi? Di buoni vini ce ne sono sempre e nessuno si era mai preoccupato di farli uscire prima possibile per questioni di mercato... E se si rischiasse "l'effetto panettone" che è già sugli scaffali da metà ottobre? L'anno scorso mi ricordo anche di aver beccato un "Panettone Novello" a metà settembre. Presumo per gli ansiosi da stress natalizio... Non so, mi sto facendo l'idea che sia tutta una questione di marketing a scapito magari della produzione. Non è importante quello che fai e come lo fai. Solo se lo sai vendere o no.

16 novembre 2006

Il primo amore non si scorda mai...


Molti anni fa, qualcuno mi ha detto: "sai qual'è la migliore birra che tu abbia mai assaggiato? La prima della tua vita". Lì per lì ho pensato che fosse una bella idiozia al quadrato e, come faccio sempre in queste situazioni, ho lasciato cadere la cosa con un sorrisetto flebile e un silenzio prolungato. Al momento infatti avevo ricordato che la prima birra della mia vita mi era apparsa terribilmente amara, troppo gasata e di sapore leggermente metallico. Ma a ripensarci meglio, forse il significato della "prima birra" poteva essere letto diversamente. Quale cioè la prima birra amata, quella cercata nei locali di sera in sera, quella che trasmetteva emozioni vere... Non so voi, ma per quello che mi riguarda non ho dubbi: Guinness! Non sto dicendo che sia la birra più buona del mondo (dubito anche esista, ci sono troppe variabili...) ma è stata la birra che mi ha convertito alla birra. Uno spartiacque, l'alba del nuovo giorno e via dicendo... Non solo e non tanto per il suo colore, spettacolare contrasto di bianco e nero, o per il suo sapore, quanto per tutto ciò che alla Guinness è collegato. Film da Un uomo tranquillo a The Commitments, musica dai Chieftains agli U2, letteratura da Joyce a Roddy Doyle. La Guinness insomma aveva un valore aggiunto, legato alla memoria e all'immaginazione, che la faceva sembrare più buona... Ma non è forse questo che cerchiamo nel mangiare e nel bere? Scampoli di memoria... Nel corso degli anni ho scoperto altre birre ovviamente, ma per la Guinness mi rimane sempre un ricordo speciale e quando la bevo un po' mi batte il cuore... Slainte.

14 novembre 2006

L'uomo che sussurrava... ai tartufi



Da FM Weekend, inserto settimanale del quotidiano Bloomberg, dell'11 novembre

Novembre è il mese ideale, per quantità e abbondanza. Le sagre non sembrano essere il luogo migliore dove fare acquisti. I tartufi migliori non sempre sono i più belli. Informazioni telegrafiche, ma preziose, soprattutto quando a rivelarle è Maurizio Vaglia, 54 anni la metà dei quali trascorsi ad annusare tartufi e, soprattutto, a commercializzarli in tutto il mondo. Il suo regno è a Milano, dove ha sede l’azienda chiamata Mgm (www.mgm-alimentari.it), ma le sue ramificazioni sono in Langa, nell’Oltrepo Pavese, in Molise e dovunque ci sia l’habitat giusto per il tartufo. «In poche parole, dal nord della Penisola fino all’altezza del Molise», commenta, «a patto, ovviamente, che le condizioni siano quelle giuste e la natura rispettata». Quali le condizioni e perché la natura va rispettata? «Le condizioni sono quelle di un territorio che sale fino a un’altitudine di circa 400 metri e l’habitat vede la presenza di pioppi, faggi, lecci o salici, solitamente lungo dei fossi. Il problema vero è che la raccolta si fa sempre più spesso indiscriminata, certo per ragioni economiche, ma alla lunga, scavare dappertutto o estrarre tartufi non completamente maturi, penalizzerà tutto il settore». La ricerca del tartufo, insomma, assomiglia sempre di più a una corsa all’oro e i funghi ipogei, vale la pena ricordare che non si tratta di tuberi, hanno quotazioni sul mercato da capogiro. Con Vaglia non si parla di prezzi, ma alla fine la forbice è larghissima: da 500 ad addirittura 11 mila euro al chilo. «La richiesta è sempre elevatissima e i tartufi, sebbene non siano mai stati abbondanti, scarseggiano. In più le richieste di mercato arrivano da tutto il mondo: con giapponesi e arabi che possono pagare cifre molto elevate». Tartufi come diamanti, verrebbe da dire. No, meglio tartufi come blue chip in Piazza Affari… «I prezzi», prosegue Vaglia, «possono cambiare anche di ora in ora e almeno un paio di volte alla settimana. Non è un lavoro facile, la fregatura è sempre dietro l’angolo, ogni tartufo va controllato non appena arriva a Milano». Già, la filiera del tartufo. La maggior parte delle persone ha in mente solo il contadino con cane al seguito che esce presto la mattina e poi il cameriere che con il giusto cerimoniale fa cadere le scaglie sul piatto. In mezzo, mistero. In realtà, tra il contadino e il cameriere c’è un mondo ancora poco esplorato. I cavatori, definiti così in gergo, sono quelli che si muovono sul posto e conoscono le zone; ma per un numero variabile di loro c’è un raccoglitore che, passando casa per casa, acquista i tartufi e, dopo una prima selezione, li avvia ai grandi centri di smistamento. Uno dei più grandi in Italia e, essendo il tartufo una peculiarità nazionale, anche del mondo, è proprio la Mgm che funziona da grossista per altri grossisti minori, ma che rifornisce anche chef di fama, privati dotati di adeguate risorse e gruppi di acquisto internazionali. Capire dove sono i tartufi migliori, quando è il momento in cui si raccolgono in relativa abbondanza e fare il giusto prezzo è virtuosismo puro. Basta un errore per rovinare una stagione. «Io sono in contatto quotidiano con i miei raccoglitori», spiega l’amministratore di Mgm, «e quando c’è scarsità di prodotto bisogna essere veloci a forzare il gioco aumentando il prezzo d’acquisto pur di avere i tartufi». Con questo prodotto, par di capire, il problema non è la cifra da sborsare, ma averlo a disposizione. «Esatto», sorride Vaglia, «impensabile arrivare sotto Natale senza tartufi. E da Sant’Ambrogio al 25 dicembre qui da noi è una corsa contro il tempo». Certo, in una città come Milano che, in stagione, “brucia” 100 chili di tartufo al giorno…. L’unico cruccio che Vaglia manifesta riguarda la qualità: «Oggi tutti vogliono il tartufo bello tondo e profumato e noi, ovviamente, quello gli diamo. Ma sa qual è il tartufo migliore? Quello buono di sapore, magari anche leggermente attaccato dagli animaletti della terra, che ne sanno sicuramente più di noi, oppure quello con qualche macchia perché è un tartufo che era attaccato alle radici di un albero e da questo si è nutrito meglio e più intensamente. Bisognerebbe farlo capire…». Noi ci abbiamo provato, anche perché il tartufo in questione costa magari un po’ meno di quello più gradevole dal punto di vista estetico. Un po’ meno, sia chiaro, in questo settore non conoscono la parola “saldo”.

Maurizio Maestrelli

10 novembre 2006

Formaggi francesi, birra italiana


Serata a tutto gas quella dell'8, come spesso accade a Milano dove gli appuntamenti si incrociano come le stelle cadenti in una notte d'agosto (cavoli, che poesia!). Ma all'appuntamento firmato Sopexa non potevo mancare: formaggi francesi e birre artigianali, recitava l'invito. Ok per i formaggi, ma le birre? Francesi, italiane, russe, belghe? Italiane, anche se confesso che speravo nelle francesi (curiosità, non tradimento). L'incontro però è stato più che positivo: a fianco di Crottin de Chavignol, Roquefort, Comté e Fourme d'Ambert le birre di Baladin, Lambrate, Beba, Birrificio di Como e Birra del Borgo non hanno sfigurato affatto. Peccato l'assenza dei birrai (che credo ormai siano gettonati come dei divi), tranne Sandro Borio del Beba, ma le loro creazioni sono andate molto bene. Da quello che ho assaggiato spuntano le conferme della consueta Motor Oil (Beba) e Super (Le Baladin) con una piacevole sorpresa per la quasi debuttante (almeno per me) Bricola del Lambrate. Non in formissima, ma intensa, esotica e speziata. Giornalisti pochi a dire il vero, ma ho fatto del mio meglio per propagandare le birre artigianali italiane nemmeno fossi il loro portavoce (e neanche nel loro libro paga). Ma sono nato come consumatore, il giornalista è arrivato dopo... Due parole infine per il progetto (ormai operativo) del Beba che diventa il primo birrificio ecosostenibile d'Italia. Gestione dell'acqua, riduzione dei consumi energetici, recupero del vetro... Complimenti Borio Brothers, ne riparleremo pubblicamente!

2 novembre 2006

Non chiamatelo (solo) Patanegra


da FM Weekend, inserto settimanale del quotidiano Bloomberg, del 21 ottobre

In gastronomia esistono parole magiche, di quelle che lasciano i commensali profani un po’ basiti e gli esperti gratificati del loro ruolo sacerdotale: Angus, bovino scozzese, Beluga, caviale russo-iraniano, Belon o Fines de Claires, ostriche francesi, Kobe, manzo giapponese, Patanegra, prosciutto spagnolo. In comune, oltre spesso a un certo alone di mistero, hanno esclusività, prestigio, eccellenza qualitativa e prezzo. Il Patanegra, ad esempio, è il prosciutto crudo più caro del mondo, anche rispetto al nostro nobilissimo crudo di Parma, ma le origini non sono mai state indagate del tutto e regna una certa confusione intorno alla fatidica “zampa nera”, traduzione letterale del termine.
Di certo gli spagnoli ne vanno giustamente fieri. Innanzitutto perché il maiale in questione, fornitore involontario della zampa-prosciutto, è una antica razza autoctona che in tempi nemmeno troppo lontani ha rischiato l’estinzione. Con questo pericolo il maiale iberico, da razza dominante e praticamente esclusiva sul territorio della penisola, è stato quasi soppiantato dal famoso, e molto più redditizio in termine di costi-ricavato, large white d’origine nordeuropea. Ma l’orgoglio nazionale, e una lungimirante avvedutezza commerciale, non è venuto meno e l’iberico è tornato in auge riconquistando velocemente non solo le tavole nazionali ma anche quelle dei migliori ristoranti del mondo. Il maiale in questione (cerdo in spagnolo) ha le sue peculiarità più evidenti nel sistema di allevamento e nella nutrizione. Alcune aree dell’Andalusia e dell’Extremadura sono ancora suggestivi pascoli selvaggi punteggiati da migliaia di querce e sono proprio queste zone l’habitat preferito del maiale che, all’aspetto, si presenta di colore nero, grigio scuro, le zampe sottili e muscolose, il temperamento bonario ma di notevolissima, per un maiale s’intende, agilità. Gli esemplari vagano quindi liberi, nutrendosi per lo più di ghiande (circa 10 chili al giorno), ma anche di erbe e di piccoli insetti e proprio questo sembra essere il segreto. Ce lo conferma anche la responsabile pubbliche relazioni della Covap di Pozoblanco, nella provincia andalusa di Cordova, una delle aziende più importanti nella produzione di prosciutti e affini di maiale iberico che è entrata a far parte della recente denominazione di origine Los Pedroches: «L’allevamento del cerdo iberico è costoso e nemmeno tanto facile. Noi possiamo contare su 300 soci allevatori che ci conferiscono il maiale quando ha un’età tra i 18 e i 20 mesi e pesa circa 130-140 chili. Dopo la macellazione ogni zampa posteriore pesa tra i 10 e i 15 chili, la si sala per tanti giorni quanti sono i chili e poi la si stagiona per due, tre anni. In questo tempo il prosciutto perde il 35% del suo peso; alla fine si applica un sigillo che garantisce la provenienza e dal quale si ottiene la tracciabilità del prodotto. Ma il segreto vero della unicità di sapore del nostro prosciutto è solo nell’allevamento allo stato brado e nella sua alimentazione. Per questo quando si cerca il vero prosciutto spagnolo si deve cercare la dizione “jamon iberico de bellota”». Ovvero prosciutto iberico “di ghianda”. Dizione, vale la pena ricordarlo, che si applica anche alla “paleta” ovvero la zampa anteriore dell’animale che in Spagna, diversamente ad esempio che nel nostro Paese, è trasformata anch’essa in prosciutto. «Dalla paleta», riprende la responsabile, «si ottengono prezzi inferiori, così come dai prosciutti detti “de recebo” dove l’alimentazione non è solo determinata da ghiande e da alimenti presenti in natura, ma anche integrata dall’uomo, e infine dal “serrano” che è un normalissimo prosciutto crudo da maiali allevati in batteria».
E il magico Patanegra, ci sarebbe da chiedersi a questo punto? «Patanegra per noi non significa molto, identifica lo zoccolo nero del maiale, ma non l’alimentazione che invece è basilare. Un Patanegra è sicuramente un maiale iberico, ma come sia stato allevato non si sa…». La leggenda del Patanegra, par di capire, è destinata a sgonfiarsi. Molto meglio dunque che il prossimo prosciutto spagnolo che ci troveremo nel piatto sia “de bellota”, anche perché con i prezzi che corrono… 36 euro al chilo all’ingrosso e al pezzo, già di più del crudo di Parma affettato (all’Esselunga di Milano sui 22 euro al chilo) o di quello di San Daniele (circa 23 euro). Il più caro al mondo quindi, ma non il più famoso. Incredibile ma vero, il marketing evidentemente batte ancora la produzione. In molti menu spagnoli infatti la traduzione di jamon in inglese è chiara e significativa: Parma ham.

Maurizio Maestrelli

Cronache dal Salone



Dovrei ormai essere avvezzo al calvario a cui ci si deve sottoporre per poter accedere al Salone del Gusto di Torino. In un'ora circa, da Milano, si arriva alle porte della città. Alle porte del Lingotto invece non basta un'ora e mezza. Di che mi lamento comunque... I giornalisti hanno il loro ingresso riservato e non gli tocca la fila sostanziosa e i 20 euro d'ingresso che spettano ai comuni mortali... Mentre mi infilo il pass al collo, novello labrador della stampa, provo quasi una fitta di invidia per tanta abnegazione. Dentro poi, è una serie di gironi danteschi pieni a livello di record della cabina telefonica di gente che assaggia, compra, tratta, chiede informazioni su qualsiasi cosa sembri alimentare. Una bimba addirittura chiede alla mamma se può assaggiare del sale gallese, la mamma acconsente e la piccola appoggia il ditino e poi lo accosta alle labbra.... Prometto che mi iscriverò alla campagna "Save the children".

Per 5 euro acquisto un panino al culatello, purtroppo fette rigide come cartone, e continuo ad avanzare sgomitando come James Caan in Rollerball. Compio il perimetro degli stand britannici in soli 20 minuti, niente male ma niente premi, osservo la ressa davanti alle spine di real ale e capisco che devo abbandonare il campo. Va meglio con le artigianali americane, lo spazio è angusto ma tutti sembrano godersela e così mi allineo: anche perché trovo un'ottima Milk Stout di Left Hand e una notevolissima Temptation di cui non mi ricordo il produttore (maledetti appunti, dove siete?). Grazie alla folla da esodo biblico il mio portafoglio è salvo, riesco nell'impresa eccezionale di non comprare nulla! In compenso assaggio birre Forst in compagnia del loro mastrobirraio Cesaro (tanto di cappello alla Sixtus, sempre ben accetta la pils) e vado a trovare la combriccola dei birrai artigianali italiani. Che dire... Sono i miei preferiti perché lavorano duro, hanno fantasia da vendere e non se la tirano. Se non ti diverti a fare la birra, che senso ha? Una sicurezza la Gilda di Enrico del Beba (a Enrico più di qualcuno, io compreso, dovrebbe fargli un piccolo monumento), da picchiare la testa sul palo la triade Xyauyù di Teo del Le Baladin (ancora non ho capito come fanno a saltare fuori quei profumi aromatici da Sauvignon? Come, come, come?). Per ultima, brillante per idea e risultato la KeTo Reporter di Leonardo di Birra del Borgo (ma se migliori così in fretta, dove arriverai?), aromatizzata per infusione con foglie di tabacco Kentucky.

Infine, il laboratorio di Cantillon. Molto utile, niente da dire, soprattutto per chi, confesso serenamente, non ama il lambic. Ma se c'è da imparare, eccomi e ascoltare Van Roy è stata una bella lezione. A dirla tutta comunque, la gueuze del 1996 era fantastica. Che mi stia convertendo anche io all'acidità polverosa di queste birre preistoriche?

Conclusioni: la sensazione dell'orgia gustativa rimane, quella del mercatone per adulti golosi pure. Ma il Salone presenta molte opportunità didattiche e, con i laboratori, di approfondimento. Ne vale la pena dunque, a patto di fare una bella seduta di training autogeno la sera prima.