A tu per tu con Jean Van Roy |
L'ho confessato, credo, più volte. Anche su questo blog. Il lambic non mi ha mai esaltato molto. Un po' meglio forse la gueuze, ma in tutta onestà la fermentazione spontanea la trovavo sempre come un assortito mix di profumi assurdi, poco affascinanti, spesso ostili. Detto questo sono sempre stato convinto che gli ultimi esempi di fermentazione spontanea, la tradizionale produzione di lambic tanto per intenderci, andassero difesi a spada tratta contro tutti i rischi di estinzione. E questo semplicemente perché la differenza è sempre sinonimo di ricchezza. E poco importava se, qualora avessi dovuto portare con me una sola bottiglia di birra su un'isola deserta, non avrei mai e poi mai scelto una bottiglia di lambic, gueuze, kriek. Nemmeno di Cantillon, ovvero del "mostro sacro" in tema di lieviti selvaggi. Fatto sta che andare sul posto ti offre l'opportunità di crescere e cambiare, almeno in parte, idea. Quindi, una tre giorni a Bruxelles, mi ha dato l'opportunità di fare il pellegrinaggio in rue Gheude e visitare la suggestiva, "ragnatelosa" birreria fondata all'inizio del secolo scorso. Conosco bene i meccanismi psicologici del contesto in cui si beve una cosa: il whisky scozzese sembra più buono nelle Highlands o nello Speyside, lo Champagne è più effervescente tra i vigneti nei paraggi di Reims e pure il crudo di Parma ha tutto un altro profumo se lo guardi da Torrechiara. Però io sono andato da Cantillon con tutte le mie prevenzioni strette sotto braccio e l'ho fatto innanzitutto per espiare il senso di colpa che avevo per non esserci mai stato prima. Insomma più o meno come sono stato a vedere i quadri di Lucio Fontana. Avevo voglia di conoscerli, ma non mi piacevano prima e non mi sono piaciuti dopo.
La vasca di raffreddamento |
Invece, al termine di una visita con interessante conversazione con l'amico Alberto Cardoso, ho incontrato Jean Van Roy, il titolare, e con lui ho iniziato a bere. Ed è stato come se partisse un tappo di spumante. Un "bop" cerebrale che ha stupito me in primo luogo. Certo, ho apprezzato il fascino della vecchia fabbrica, l'attaccamento alla tradizione interpretata in modo rigoroso, la sottile e giustificata polemica con chi fa gueuze per modo di dire. "Politicamente", se vogliamo dirla così, mi ero allineato, ma questo non ammetteva come conseguenza ineluttabile il fatto che mi dovessero anche piacere le birre. Ero insomma nell'atteggiamento gustativo di chi ama la frase, falsamente attribuita a Voltaire, "Disapprovo quello che dite, ma difenderò fino alla morte il vostro diritto di dirlo". Questo almeno fino al primo sorso. Poi, appunto, mi sono fatto avviluppare da profumo e sapore. Non li ho più trovati ostili, solo complessi. Quasi ti costringessero a pensare a quello che stavi bevendo. Ed è stato, lo confesso, molto esaltante. Tanto che la sera stessa mi sono ritrovato a bere Cantillon anche al Moeder Lambic di place Fontainas. Certo, non "a secchiate" come ogni tanto mi capita di leggere, ma con più passione emotiva. Non solo con il semplice rispetto che si deve a chi fa della sua attività economica una vera e propria missione.