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2 aprile 2012

Dentro lo Zythos Bierfestival...

Premessa importante: io allo Zythos Bierfestival non sono mai stato. Ergo, teoricamente, non dovrei parlarne... Il caso vuole però che, un paio di settimane fa, fossi stato invitato a fare un breve ma intenso viaggio stampa a Lovanio e a Beersel e che, la prima sera, fosse stato organizzato una sorta di "pre" Zythos a uso e consumo di una pattuglia di giornalisti arrivati dall'Italia, dalla Spagna e dall'Inghilterra.
Ho quindi avuto modo di conoscere e scambiare due parole con Yannick de Cocquéau, uno dei componenti del "board" dello Zythos, vale a dire un membro del comitato organizzatore. A lui ho chiesto lumi su alcuni aspetti organizzativi partendo dal presupposto, confermatomi da Yannick, che di italiani allo Zythos se ne sono sempre visti parecchi e che, da quest'anno, il festival avrà come sede proprio la città di Lovanio. Una location strategica per diversi fattori: in primo luogo Lovanio è facilmente raggiungibile in treno direttamente dall'aeroporto di Bruxelles (in 15 minuti circa), in secondo luogo Lovanio è città universitaria quindi con una vita serale-notturna intensa e vivace, punteggiata di locali dove incontrarsi davanti a una birra e con un'ottima e diversificata ricettività alberghiera.
- Allora Yannick, diamo un po' di numeri allo Zythos...
«Innanzitutto il festival è nato nove anni fa per promuovere le birre belghe. La scorsa edizione ci sono state circa 10mila persone. Quest'anno, con la sede a Lovanio, ne aspettiamo almeno 15mila. Ci saranno 96 stand per circa 104 birrerie. Tutte le trappiste, tranne Westvleteren ma, per la prima volta, le birre di St. Bernardus»
- Chi viene allo Zythos?
«Beh, innanzitutto belgi ovviamente. Ma abbiamo molta partecipazione dalla Francia, dall'Olanda e dall'Italia. Tanto che il nostro sito è presentato anche in italiano»
- Quanto costa entrare allo Zythos?
«L'ingresso è gratuito, con cauzione per il bicchiere, e lo staff è composto da volontari. Lo Zythos Bierfestival ha un board organizzativo permanente di circa dieci persone. Durante il festival i volontari sono circa 250. All'ingresso si possono acquistare i token per la birra: un token vale 1,40 euro. I soldi vengono ripartiti in questo modo: sull'incasso la piccola birreria può trattenere fino a 80 centesimi per token, la grande fino a 70 centesimi. Nulla vieta comunque che il partecipante possa trattenere meno, concedendo una percentuale superiore all'organizzazione»
- Cosa significa "birreria piccola", "birreria grande"?
«Il confine tra le due è determinato dalla produzione: più o meno di 750 ettolitri l'anno»
- Perché andare allo Zythos?
«Perché è una vetrina importante per conoscere le birre del Belgio, perché molte birrerie aspettano lo Zythos per presentare nuovi prodotti e sottoporli al giudizio degli appassionati, perché partecipano piccoli produttori spesso ancora poco noti e... perché ci si diverte!».

15 dicembre 2011

Bruxelles! Così parlò il primo sondaggio...

L'interno del Moeder Lambic
Per qualche giorno ero sicuro che la mia amata Londra avrebbe trionfato ma, con un colpo di reni, alla fine l'ha spuntata Bruxelles come destinazione birraria preferita dei 58 volenterosi che si sono prestati al primo sondaggio di Birragenda. Parliamoci chiaro, 58 votanti non li considero un "popolo in cammino" e il sondaggio vale per quello che vale. Però è anche vero che non contavo su centinaia di voti e il giochino è stato divertente comunque. Se ci sono delle conclusioni da tirare direi che, forse perché non sono Mannheimer (e, mio Dio, non desidero nemmeno diventarlo), più che la città e i suoi locali hanno vinto gli stili e le tipologie birrarie. Insomma, meglio blonde, blanche, tripel e lambic piuttosto che ale, ipa e compagnia. Mi hanno colpito i sette voti per Bamberga, segno che le rauchbier sono un motivo fondante per spararsi il viaggio fin lassù e mi ha colpito ancora di più l'assenza di voti per Monaco di Baviera che, dopotutto, può contare sull'Oktoberfest e su alcune birrerie molto famose. A secco sono rimaste anche le "nuove frontiere" della birra europea ovvero Stoccolma (Akkurat e Oliver Twist) e Copenhagen per le quali invece confidavo in qualche voto. Chissà, magari il fatto di dover fare una scelta fa pendere il piatto della bilancia verso destinazioni più "sicure" rispetto a quelle emergenti certo, ma magari ancora non così gratificanti a tutto tondo... Comunque i commenti sono aperti per contribuire a dare una spiegazione più convincente della mia al risultato... Io intanto provo a elaborare il secondo...

16 giugno 2011

Drinking in New York City

L'interno del Blind Tiger
Due giorni a New York sono davvero pochissimi, però perché buttarli via. Indi per cui siamo sbarcati nella Grande Mela principalmente per fare i turisti, poi per sopravvivere a un caldo record che non ci saremmo mai aspettati (37 gradi trasformano Manhattan in un deserto rovente che nemmeno l'ombra di Central Park riesce a mitigare) e infine per berci qualche birra che in Italia non ci è mai capitato di trovare. Prima tappa dunque in un pub di cui avevo sentito parlare ma che, l'ultima volta a NYC avevo tralasciato per privilegiare il più noto Gingerman. Trattasi del Blind Tiger di Bleecker Street, nel Village ovvero il quartiere diventato famoso negli anni Sessanta per gli artisti (pochi) che sarebbero diventati famosi e gli artisti (la maggior parte) che sarebbero rimasti tale almeno nelle loro speranze. Il Village è comunque un posto strano, diverso dalla Manhattan verticale dei grandi palazzi e delle megavetrine. A me è sempre piaciuto. Qui trovi tutte le cucine etniche del mondo (noi abbiamo cenato all'Hummus Place) e si respira un'atmosfera da media città di provincia. Il Blind Tiger è una specie di antro oscuro )come dimostra anche la foto fatta senza flash per non rompere...), molto raccolto e credo frequentato solo da gente che, prima di entrare, sa già di non essere in cerca di una semplice Bud Light. La nostra serata, ad esempio, è stata ravvivata da una Blast Double (o Imperial) Ipa di Brooklyn Brewery dal profumo fantastico di luppoli freschi e da una scorrevolezza in gola tremenda. Da berne a litri, tanto poi si chiama un taxi o si prende la metro. Tuttavia, visto che la lista "on tap" era assai interessante, e abbiamo volutamente tralasciato i vari vintage inglesi e belgi, io mi sono lanciato su Stone Brewing e sulla loro Sublimely Self-Righthouse Double Ipa. L'ho scelta anche per il nome da menu di alta classe (tipo "raviolini tirati a mano farciti di carne d'oca allevata in cortile sotto il sole e conditi con timo della Lunigiana, radici di zenzero della Manciuria liberata e bla bla bla...), ma dopo il primo sorso l'ho trovata pazzescamente buona, una formidabile Black Ipa che non si lascia capire immediatamente e che, forse proprio per questo, è da amore vero.
Interno dell'Heartland Brewery a due passi dal Pier 17
Ergo, credo sia chiaro che raccomando vivamente un passaggio dal Blind Tiger se si va a New York. Tuttavia raccomando con (quasi) la stessa convinzione anche la Heartland Brewery di cui ho già avuto modo di parlare. Ho deciso di tornarci anche questa volta perché da un lato ero consapevole di aver lasciato le cose incompiute, dall'altro perché i nachos presenti tra gli "starter" del menu erano quanto di meglio ci potesse essere per dare una giustificazione alle troppe birre ordinate. Comunque questa volta ho tagliato corto e benché detesti cordialmente i bicchierini sampler da due sorsi (già trovo un po' irritante la mezza pinta) ho chiesto il "full sampler" ovvero sette birre in formato mignon, tutte le regolari più una stagionale. L'elenco completo lo trovate qui, ma ho trovato molto interessante per i suoi chiari profumi agrumati d'arancia la Indian River Light, molto buona anche la Farmer Jon's Oatmeal stout, caffettosissima che sembrerebbe quasi fatta in collaborazione con Starbucks, forse la migliore del gruppo, insieme alla stagionale Belgian Ipa, molto pulita e caratterizzata. Discrete comunque la Indiana Pale Ale Ipa, ma inferiore alla Belgian, la Red Rooster Ale e la Harvest Wheat Beer. Da dimenticare invece la Cornhusker Lager. Insomma, qualche alto, alcuni medi, qualche basso, ma una sosta, magari a pranzo o verso metà pomeriggio, in una Heartland Brewery di New York non è tempo buttato via. Come, del resto, non è mai tempo buttato via fare un salto sotto l'ombra dell'Empire State Building...

14 giugno 2011

Una città da bere - Philadelphia Beer Week

The Nodding Head Brewery

Me l’avessero detto prima, forse, non ci avrei creduto. Oddio, quel minimo di esperienza nordamericana fatta lo scorso ottobre mi aveva insegnato che, città Usa che vai, ottimi locali che trovi. Ma Filadelfia si distingue da San Francisco o da New York per alcuni aspetti: in primo luogo la quantità di posti dove si possono trovare un bel “pacchetto di mischia” di birre artigianali (chissà questa parola cosa vorrà dire in America?). In gran parte prodotte nella East Cost, ma con una bella presenza pure di birrifici californiani e dintorni. In secondo luogo, Filadelfia possiede un centro storico di dimensioni limitate, per gli standard statunitensi, facile quindi da girare a piedi e considerato che molti dei locali più interessanti sono proprio nel centro storico, ecco che la cosa assume un significato ancora più piacevole… 
Il Mc Gillin's Old Ale House
Infine Filadelfia presenta, in città, alcuni microbirrifici e brewpub di tutto rispetto. Dalla Philadelphia Brewing alla Yard’s Brewing, di cui mantengo il ricordo soprattutto della loro Brawler, fino alla Nodding Head Brewery, un brewpub dove la “perla” mi è sembrata essere una brown ale chiamata Grog.
Tra i locali, se il Monk’s Cafe brilla soprattutto per la grande passione “belgofila” del suo titolare che ha fatto dire a Michael Jackson “è semplicemente il miglior belgian cafe degli Stati Uniti”, io mi sono trovato molto bene anche al Farmer’s Cabinet, scoperto su suggerimento di Joe Sixpack, al Philadelphia bar & restaurant, dove mi hanno un po’ "piallato" a forza di ipa e double ipa, e al Mc Gillin’s Old Ale House che si vanta di essere la più vecchia insegna birraria della città di Benjamin Franklin. Il quale, tra l’altro, apprezzava in modo particolare la birra.
Luci nella notte: l'insegna del Monk's Cafe
Ora, se mettete insieme tutti questi locali, e molti altri ancora, e ne moltiplicate il potenziale per il coefficiente dato da una settimana, la Philly Beer Week, dove tutta o quasi la città è sembrata essere coinvolta (è stato addirittura organizzato un pub crawl a piedi con guide turistiche che raccontavano edifici e monumenti e poi ti portavano nei pub), il risultato è stato quello di un'assoluta goduria dei sensi. Mi è difficile ricordare tutte le birre bevute, dalla tarda mattinata fino a sera, anche se da qualche parte sono sicuro di essermele segnate. Ma non credo sia questa la cosa più importante da raccontare. La cosa più importante è aver vissuto una città che si vanta di essere la più "birraria" degli Stati Uniti (anche se il newyorchese Garrett Oliver della Brooklyn Brewery non si è detto d'accordo), una città soprattutto dove la birra entra anche nei ristoranti più blasonati e negli hotel di lusso, la cerimonia d'apertura prevede una "corsa" a tappe di locale in locale e si passa da una taverna rumorosa e quasi sordida all'immacolata atmosfera dell'hotel Four Seasons. Una città che, se nella Philly Beer Week sfiora quasi la vertigine da appuntamenti birrari, come ho cercato di spiegare qui, è secondo me una delle più interessanti da visitare e vivere tutto l'anno.

31 maggio 2011

Cantillon Redemption

A tu per tu con Jean Van Roy
L'ho confessato, credo, più volte. Anche su questo blog. Il lambic non mi ha mai esaltato molto. Un po' meglio forse la gueuze, ma in tutta onestà la fermentazione spontanea la trovavo sempre come un assortito mix di profumi assurdi, poco affascinanti, spesso ostili. Detto questo sono sempre stato convinto che gli ultimi esempi di fermentazione spontanea, la tradizionale produzione di lambic tanto per intenderci, andassero difesi a spada tratta contro tutti i rischi di estinzione. E questo semplicemente perché la differenza è sempre sinonimo di ricchezza. E poco importava se, qualora avessi dovuto portare con me una sola bottiglia di birra su un'isola deserta, non avrei mai e poi mai scelto una bottiglia di lambic, gueuze, kriek. Nemmeno di Cantillon, ovvero del "mostro sacro" in tema di lieviti selvaggi. Fatto sta che andare sul posto ti offre l'opportunità di crescere e cambiare, almeno in parte, idea. Quindi, una tre giorni a Bruxelles, mi ha dato l'opportunità di fare il pellegrinaggio in rue Gheude e visitare la suggestiva, "ragnatelosa" birreria fondata all'inizio del secolo scorso. Conosco bene i meccanismi psicologici del contesto in cui si beve una cosa: il whisky scozzese sembra più buono nelle Highlands o nello Speyside, lo Champagne è più effervescente tra i vigneti nei paraggi di Reims e pure il crudo di Parma ha tutto un altro profumo se lo guardi da Torrechiara. Però io sono andato da Cantillon con tutte le mie prevenzioni strette sotto braccio e l'ho fatto innanzitutto per espiare il senso di colpa che avevo per non esserci mai stato prima. Insomma più o meno come sono stato a vedere i quadri di Lucio Fontana. Avevo voglia di conoscerli, ma non mi piacevano prima e non mi sono piaciuti dopo.
La vasca di raffreddamento
Invece, al termine di una visita con interessante conversazione con l'amico Alberto Cardoso, ho incontrato Jean Van Roy, il titolare, e con lui ho iniziato a bere. Ed è stato come se partisse un tappo di spumante. Un "bop" cerebrale che ha stupito me in primo luogo. Certo, ho apprezzato il fascino della vecchia fabbrica, l'attaccamento alla tradizione interpretata in modo rigoroso, la sottile e giustificata polemica con chi fa gueuze per modo di dire. "Politicamente", se vogliamo dirla così, mi ero allineato, ma questo non ammetteva come conseguenza ineluttabile il fatto che mi dovessero anche piacere le birre. Ero insomma nell'atteggiamento gustativo di chi ama la frase, falsamente attribuita a Voltaire, "Disapprovo quello che dite, ma difenderò fino alla morte il vostro diritto di dirlo". Questo almeno fino al primo sorso. Poi, appunto, mi sono fatto avviluppare da profumo e sapore. Non li ho più trovati ostili, solo complessi. Quasi ti costringessero a pensare a quello che stavi bevendo. Ed è stato, lo confesso, molto esaltante. Tanto che la sera stessa mi sono ritrovato a bere Cantillon anche al Moeder Lambic di place Fontainas. Certo, non "a secchiate" come ogni tanto mi capita di leggere, ma con più passione emotiva. Non solo con il semplice rispetto che si deve a chi fa della sua attività economica una vera e propria missione.

23 maggio 2011

Streets (and beers) of Philadelphia

Philadelphia, here we go!
Philadelphia (Usa) è più Sylvester Stallone o Tom Hanks nell'omonimo film? Sondaggio non facile come potrebbe sembrare perché la nostalgia adolescenziale mi farebbe dire Rocky (i primi due, poi è stata una tragedia), il politically correct mi farebbe propendere per il secondo... Vabbé, allora decido che Filadelfia è birra. Fortissimamente birra, soprattutto nella decina di giorni che vanno dal 3 giugno al 12 giugno, quando in città si celebra la Philly Beer Week alla quale sono stato invitato e alla quale parteciperò con notevole gaudio anche nel marasma di impegni lavorativi che contraddistinguono il rush finale che porta all'estate. A dire il vero l'invito in terra americana e nella città dell'indipendenza è stato fatto a Valentina. Io mi sono agilmente imbucato e sono pronto a ritrovare le straordinarie birre di Deschutes Brewery, che avevo solo assaggiato allo European Beer Star dello scorso novembre, oppure quelle della Flying Fish, di Saranac, della Harpoon, approfittandone anche per dare una ripassata a quelle della Dogfish Head, Sierra Nevada, Flying Dog. Insomma, dubito che morirò di sete nelle giornate a Filadelfia. La Beer Week si annuncia del resto straordinariamente intensa grazie anche al coinvolgimento di numerosi locali birrari cittadini che apriranno le porte a tasting vari organizzati dalle birrerie presenti alla manifestazione. Un'idea, quando vedrò in prima persona capirò se confermare o meno, che potrebbe essere importata anche in Italia. A me, ad esempio, la sperimentazione riminese fatta da Unionbirrai qualche anno fa in occasione di Pianeta Birra mi era piaciuta...

2 aprile 2011

Patagonia Brewing

Ho sempre sostenuto che parte del fascino della birra risiede anche nel fatto che non ha limiti imposti dalle latitudini, come ad esempio, il vino. Tuttavia, andandomene in giro una settimana per la Patagonia argentina (i report quotidiani del viaggio, se li volete leggere, li trovate qui) mi sono stupito della quantità di piccole produzioni birrarie in un luogo considerato, per certi versi a buona ragione, "dimenticato da Dio". Di Argentina, in termini birrari confesso che non andavo oltre il marchio commerciale più conosciuto, ovvero la Quilmes che, tra l'altro, è presente pure in Italia.

Ora, la Quilmes la si trova dovunque in Argentina e la sua caratteristica bottiglia da mezzo litro dall'imboccatura particolarmente larga è una presenza abituale sulle tavole di pub e ristoranti (i favolosi "asador" dove si mangia agnello allo spiedo e grigliate di carne che da sole valgono il viaggio). Non solo, ma Quilmes in Argentina significa anche la variante Stout e Bock. Peccato solo che da queste parti, sebbene il freddo possa essere davvero intenso, abbiano l'abitudine di refrigerare i boccali prima di riempirli di birra. Refrigerarli al punto tale che una sottile crosticina di ghiaccio adornava il mio pieno di Stout che del resto è una stout un po' sui generis: scura ovviamente, ma poco corpo e note più che altro caramellose. Tuttavia, strana usanza a parte, la Quilmes non è la scelta unica e obbligata, lasciando perdere la triste Isenbeck assaggiata in volo tra Roma e Buenos Aires, se si vuole ordinare una birra in Patagonia. A El Calafate ad esempio, esiste la Cerveceria Sholken dove due ragazzi, Matias e Favio, producono tre birre (la Rubia, la Roja e la Nera) con luppolo coltivato in Argentina, ma più a nord. Delle tre, tutte non filtrate, ho apprezzato la Rubia, una chiara abbastanza profumata, e la Nera che sembra ispirata alle rauchbier di Bamberga con profumi leggeri di affumicatura. Niente di esaltante, sia chiaro, ma un percorso originale che merita di essere incoraggiato. Scendendo poi verso Ushuaia, che è considerata la città più australe del mondo, ecco spuntare come funghi birre a me totalmente sconosciute.
La Cerveceria Sholken a El Calafate
Alcune discrete India Pale Ale, alcune Bock, molte birre scure, anche se quasi tutte anonime, ma una scelta assai ampia per essere in un territorio poco popolato e dove la vita non presenta tutte le comodità di una moderna città occidentale. A Ushuaia sono stato in un ristorante chiamato Placeres Patagonicos che, oltre ad alcuni grandi marchi commerciali, aveva oltre una decina di birre locali, dal trittico (pilsen, pale ale e stout) della Cerveceria Cape Horn alla quasi infinita gamma proposta dalla Cerveceria El Bolson che passa dalla serie classica alla birra al miele, a quella al cioccolato (notevole, con un profilo aromatico molto caratterizzato) fino a quella al peperoncino (forse la più interessante al naso, per delle note vegetali molto fresche e una gradevole persistenza pungente al palato). Insomma, un itinerario quello fatto nella Patagonia argentina molto interessante anche sotto il profilo birrario, una presenza che seppure qualitativamente non indimenticabile mi fa riflettere sul fatto che in questo ambito c'è davvero spazio per tutti, anche all'interno dello stesso locale. La mia permanenza in Argentina si è infatti conclusa in un pub irlandese di Buenos Aires. A fianco della Guinness, che forse andava per la maggiore, c'era anche una scura e una pale ale locale di un piccolo produttore che adesso si è perso nei meandri dei miei appunti. Io ho optato per la pale ale, qualcuno al mio tavolo ha preferito la Guinness. Libertà di scelta, gran bella cosa...
Scelta birraria in Patagonia

25 gennaio 2011

Il giornalista nella neve

A scrivere di birra, vino, distillati e ristoranti non è che capita di vivere chissà quali avventure. Il massimo è provare il brivido di soffiare nell'alcoltest, resistere a enne boccali da litro durante le interviste a birrai tedeschi, evitare di addormentarsi sul bancone di qualche pub londinese o sorseggiare impavidi e di prima mattina una Rochefort 10. Ma venerdì scorso, 21 gennaio, ho preso il treno da Milano, sono sceso a Bologna, sono salito in un'auto, ne sono sceso a Fossombrone (Pesaro Urbino), sono risalito in una seconda auto per arrivare infine in quel di Apecchio, paesino di poco più di duemila abitanti ma con ben due birrifici: Amarcord e Tenute Collesi. Io ero lì per il secondo, Tenute Collesi, e questa è la scena che avevo davanti...

Bufera di neve alla marchigiana

Cinquanta centimetri di neve soffice e un vento che giustamente la sollevava per sbattertela in faccia. Una scena alla Zanna Bianca o, appunto, da Sergente nella neve (entrambi romanzi della mia adolescenza), tuttavia uno scenario fantastico, suggestivo (leggermente rischioso solo nello scendere i gradini). Ma uno scenario che i soci di Tenute Collesi possono ammirare (beati loro) tutti i giorni dalla grande vetrata panoramica. All'interno si trova l'impianto di produzione dal quale nascono, a tutt'oggi, le sei birre firmate Tenute Collesi e distribuite in Italia dalla D&C, azienda storica nel settore e di comprovata abilità.
La gamma di Tenute Collesi
Giuseppe Collesi e Roberto Bini sono i due soci che hanno dato vita al birrificio. Come spesso accade l'unione di passione e competenza commerciale permette loro di ottenere buoni risultati ma, visto che l'arroganza intellettuale non abita evidentemente ad Apecchio, a progettare le loro birre hanno chiamato un tecnico belga, quel Marc Knops che lavora da Achel e che è stato definito da Roger Protz "peripatetic brewer". Il risultato sono delle birre molto equilibrate, di facile approccio, eleganti e non troppo caratterizzate. Così, insomma, come le avevano pensate Collesi e Bini che puntano dritti alla ristorazione, alle gastronomie gourmet, ai winebar. Tra tutte ho trovato molto interessante la Ego, una chiara da 6% vol con aromi delicati, floreali e un finale bello asciutto, e la Ubi, ambrata (definita Rossa) da 8% vol che lascia intendere il caramello, toni di biscotto, una punta di rabarbaro, mantenendosi comunque sempre beverina. Di recente inoltre è nata la Triplo Malto, una chiara da 9% vol che vede la luce tutti gli anni il 4 luglio (anniversario del birrificio) e a tiratura limitata: sulle quattromila bottiglie. Interessante infine, ma almeno per me da approfondire, l'approvvigionamento del malto che Tenute Collesi ha risolto affidandosi al Cobi, una malteria anconetana che produce malto d'orzo per birra. Un segnale, nemmeno troppo urlato a dire la verità rispetto ad altre situazioni, che forse anche in questo campo qualcosa si sta muovendo...

8 dicembre 2010

Remember Hawaii

In una giornata paciosa, benché gelida, come quella odierna la mia mente vola alle Hawaii e il mio cuore si strugge. Dopo questo attacco da libro Cuore (sic) proseguo segnalando a chiunque avesse l'opportunità di sciropparsi un numero notevole di ore di volo (ma da San Francisco sono solo cinque) la possibilità di godere delle favolose birre della Kona Brewing Company a Ohau, l'isola principale dell'arcipelago. Quella, tanto per intendersi, con Honolulu, la spiaggia di Waikiki e Pearl Harbour. E' qui infatti che, seminascosto in un'area commerciale, si trova il secondo flagship pub del birrificio hawaiiano più celebre. Solo birre Kona
L'insegna a Koko Marina
alla spina, e qualche referenza disponibile anche in bottiglia, ovviamente e una cucina che mescola cibo da pub con contaminazioni isolane. Come spesso accade negli Usa, la scelta migliore è quella di avventurarsi nel cosiddetto "sample", bicchierini monodose che permettono di fare un giro quasi completo di tutte o quasi le etichette. D'accordo, è più triste che avere una pinta in mano ma si rischia meno all'uscita e quando ci si rimette in auto. Complessivamente va detto che quelli di Kona sanno il loro mestiere, nel senso che tutte le loro birre sono più che corrette con punte di notevole interesse soprattutto per le specialità "creative"....
Il "sampler"
Dalla Longboard Island Lager, luppolata ma equilibratissima lager da bere a qualsiasi ora della giornata, alla Fire Rock Pale Ale, una delle migliori a mio avviso, passando per, appunto, le più caratterizzate Wailua Wheat, birra di frumento con frutto della passione che le dona un tocco vagamente esotico e per niente stucchevole, alla morbida Pipeline Porter dove appare, tra gli ingredienti, una percentuale di caffè Kona coltivato su Big Island (dove si trova lo stesso birrificio). Birre dunque, anche in un posto vacanziero come sono le Hawaii, che non si rivelano mai blande o semplicemente beverine ma che sanno differenziarsi dalle, sempre presenti, grandi marche industriali. Ma, oltre alla qualità, mi piace sottolineare la grande attenzione che i birrai di Kona dedicano all'immagine dei loro prodotti. Etichette colorate e sgargianti, immagini quasi fumettistiche e sempre legate all'immaginario hawaiiano (le onde, il surf, le fanciulle che ballano la hula, le cascate...), merchandising (magliette, cappellini, portabottiglie, minitavole da surf) e via dicendo. Segno evidente che, da queste parti, la qualità del prodotto va di pari passo con l'immagine. Parola non demonizzata per ipocrite crociate pauperistiche o per, come nella maggior parte dei casi, menefreghismo da artigiano irsuto, ma colta nelle sue potenzialità di vendita e di successo. Certo, la qualità costituisce le fondamenta della casa, ma senza il tetto non ci entrerà mai nessuno. Detto questo, mi posso pure godere il tramonto...

Tramonto a Waikiki


25 novembre 2010

New York, New York

Riprendiamo la serie di post "amerigani", che tanto bene non mi fa se penso che adesso sono in Italia, con la tappa "niuiorchese" ovvero il dovere, alias The Ginger Man, e il caso fortuito, alias l'Heartland Brewery, almeno quella che ho visto io e cioè questa qui, a due passi dal ponte di Brooklyn. Il "dovere" implicito nella visita del Ginger Man sta nel fatto che, oltre alle informazioni ottenute spizzicando qua e la, era stato Michael Jackson in persona a indicarmelo nel lontano 2001. Al termine di una serata a due in un ristorantino di Rimini e sapendo che sarei andato a fare un salto nella Grande Mela con un amico qualche giorno dopo, aveva appuntato due o tre segnalazioni raccomandate. Tuttavia, la mia prima avventura a New York si era scontrata con il fatto che ci arrivavo reduce da una fiera, al tempo era così, altamente impegnativa e in compagnia di un australiano. Un mix letale, se si immagina quanto può bere un australiano in libertà. Ergo, la prima sera ero già bello e schiantato su un bancone dalle parti del Village e il resto della tre giorni si confonde in una serie di entrate e uscite da pub e locali senza che nulla mi restasse impresso nella memoria. Così, questo giro, mi sono preparato prima: macchinetta digitale e taccuino per appunti...
The Ginger Man - New York City
Da fuori il locale non mi ha impressionato particolarmente. Ho litigato con l'insegna per cinque minuti e alla fine non sono riuscito a tirare fuori una foto decente. Penso di aver fatto meglio, senza strafare, con l'interno. Il Ginger Man ha luci crepuscolari, una stanza gigante e un bancone massiccio. L'occhio tuttavia cade sulla sfilza di spine a parete e, subito dopo, sulla carta delle disponibilità. Avvincente quanto il romanzo di J.P. Donleavy che dà il nome al pub. Un ben di dio non solo a stelle e strisce ma anche in arrivo dal Belgio, dal Regno Unito e, ebbene sì, dall'Italia. Al tempo della mia visita compariva tra le spine la 25Dodici di Birra del Borgo e oggi, sfrucugliando nel loro sito, la Vudù del Birrificio Italiano. Gli italiani del resto si fanno valere soprattutto in bottiglia: con Baladin, Ducato, Italiano, Montegioco, Barley (la BB "Dexi" però non si può guardare...), Pausa Cafè, Grado Plato, Panil e Troll. Per quanto inorgoglito, mi sono comunque ben guardato dal chiedere birra italiana e ho giocato in casa andando a scegliere solo birre autoctone. Passando da una grande soddisfazione a, addirittura, stupore ed entusiasmo... Insomma, il Ginger Man mi è rimasto dentro e anche io del resto ci sarei rimasto dentro per una settimana almeno. Ho apprezzato l'idea (diffusa negli States) di prendere quattro o cinque assaggi a prezzo convenzionato. Non mi sembra che in Italia sia una pratica diffusa. Peccato, anche se, per poterla introdurre, bisogna prima avere le birre adeguate.
Tutte birre homemade invece alla Heartland Brewery, ma tutte, almeno quelle assaggiate, una bella sorpresa.

The Heartland Brewery - New York City

Questa catena di brewpub cittadini offre innanzitutto una scelta gastronomica più interessante rispetto al Ginger Man, davvero scarna, e una linea di birre tra regular e seasonal ben fatte e molto godibili. A partire dalla Indiana Pale Ale passando per la Smiling Pumpkin Ale e per finire con la Stumpkin. Farsi un paio di pinte sui tavoli all'aperto (a ottobre si poteva ancora) intervallandole con un piatto di nachos, che sembrava un quadro di un Van Gogh impazzito del tutto, è stato corroborante. Consiglio sinceramente almeno la tappa, se non un tour di tutte e sette le brewery collocate a Manhattan (le cucine dovrebbero pure variare leggermente tra l'una e l'altra...). E adesso, scusate, ma vado a vedere le offerte di volo per la città che non dorme mai!

22 novembre 2010

Madrid e l'Inedit Adrià

Dopo qualche giorno trascorso a Madrid non si riesce a capire se la capitale è la città più spagnola in assoluto, come sostengono in molti, o quella che invece rientra meno nei parametri iberici. Non ha, a mio avviso, il fascino abbagliante dell'Andalusia, di Siviglia o di Granada, e nemmeno l'immagine simpaticamente rocambolesca di Barcellona, tuttavia la sua bellezza è sottile come il suo cielo e, quando devi ripartire, sai già che ti mancherà un po'. Di Madrid ricorderai senza dubbio il Prado, la Puerta del Sol, il palazzo reale, la spettacolare Plaza de Toros, tanto bella fuori quanto crudele dentro, e ancora i suoi mille locali dove mangiare le tapas, a qualsiasi ora, e bere infiniti boccali di birra (tanto costa poco...).


La Plaza de Toros a Madrid

La birra in Spagna è affare quotidiano. Nel senso che è impossibile non berla tutti i giorni, ma non ci si deve aspettare di trovare chissà che birra. Al di là dei grandi marchi commerciali, i brewpub che abbiamo incontrato in città difficilmente si discostano dalla semplice dicotomia "chiara o ambrata". Naturbier, ad esempio, si trova in plaza Santa Ana ed è un fantastico "spot" per tenere d'occhio la vivace vita notturna madrilena. La loro chiara è ben spillata, gradevole e perfetta per toglierti la sensazione di calore opprimente (noi siamo stati lì a settembre). Se ne possono bere un nugolo di boccali, mentre l'ambrata è un po' troppo "caramella" e dopo un po' ti fa segnare il passo. Lo stesso discorso si può applicare al vicino di porta del Naturbier, ovvero la Cerveceria Santa Ana oppure alla Cerveceria Magister, in una stradina laterale alla piazza. Anche con questa varietà limitata, tuttavia, si continua a bere birra un po' a tutte le ore. Compresa la notte, che a Madrid è nè più nè meno che la prosecuzione del giorno visti i risultati dell'ultima Noche Blanca.


La Notte Bianca di Madrid
L'ultimo giorno comunque, sono riuscito a infilare in valigia tre bottiglie di birra. Una Cruzcampo Gran Reserva (ancora da assaggiare), una Domus Regia prodotta da un microbirrificio di Toledo (deludente oltre qualsiasi pessimistica previsione) e la Estrella Inedit, bottiglia da 0,75 firmata da nientepodimenoche Ferran Adrià, il genio dei fornelli vincitore enne volte del titolo di miglior chef del mondo (almeno secondo San Pellegrino).
 

Estrella Inedit by Adrià

Iniziamo con il dire che l'ho pagata 4,90 euro nel supermercato de La Corte Ingles (una specie di Rinascente in versione spagnola), un prezzo decisamente abbordabile. Diciamo poi che ero prevenuto in maniera sostanziosa avendo già visto la simpatica faccia di Ferran su un sacchetto di patatine durante un mio precedente viaggio a Siviglia. Ma, tutto sommato, l'assaggio non è stato drammatico. Gli ingredienti per la birra sono malto d'orzo e di frumento, coriandolo, buccia d'arancio e liquirizia e l'assaggio è risultato gradevole, senza voli pindarici, ma nemmeno senza smorfie di disgusto. Bella bottiglia, ingredienti correttamente dichiarati in retroetichetta, fascino snob garantito, prezzo da battaglia. E' la versione della "birra da ristorante" in salsa spagnola. E, mentre la bevevo, ho pensato che forse qui in Italia abbiamo ancora qualcosa da imparare...

15 novembre 2010

Fumo di Bamberga

Una volta arrivati a Norimberga sarebbe stato da idioti non fare un salto, una sessantina di kilometri più a nord, in quel di Bamberga. E' con questa indiscutibile motivazione che, due giorni dopo la cerimonia di premiazione allo European Beer Star, siamo arrivati in città. Il tempo di parcheggiare lungo il fiume, girare per il centro storico e, Good Beer Guide Germany di Steve Thomas in mano, prima e irrinunciabile tappa alla birreria Schlenkerla per godere beati della loro Marzen che, alla spina, è più buona che mai.

In attesa dei piatti
Il locale (in Dominikanerstrasse 6) è ovviamente ultrafamoso (gli italiani non mancavano) con un servizio di cucina tra i più sorprendenti mai incontrati in giro per il mondo. Allora, c'era un menu che andava bene fino alle 12, un altro dalle 14.30 fino alle 22 e infine una minilista per colmare il buco temporale. Considerato che il cibo, peraltro ottimo, non sembrava richiedesse ore e ore di lavoro ai fornelli, la scelta era quantomeno discutibile. Sia come sia, le marzen ci hanno dato serenità. Se al primo sorso hai la sensazione di essere stato chiuso in castigo da piccolo in un affumicatoio (con tutti gli incubi ricorrenti che la cosa comporta) in breve ti rendi conto che questa rauchbier ti intriga e non ti demolisce, non è aggressiva come sembrerebbe di primo acchito e si lascia bere ripetutamente. Visto che eravamo in ballo e complice qualche incontro inaspettato...


Conrad Seidl alla Schlenkerla
come quello con Conrad Seidl, il più noto beerwriter austriaco che avevamo conosciuto nel lontano 2000 per il debutto della Samichlaus prodotta dall'austriaca Eggenberg, ci siamo lasciati andare sulla stagionale Urbock ovvero una versione più forte della Marzen, stagionata in grotta (almeno così dicono loro) e spillata dalla botte. Una birra a dir poco corposa, con evidenti e ovvie note di affumicato, forse a mio gusto un pochino greve. Alla lunga mi ha stancato e sono tornato alla mia Marzen. Almeno fino a quando non abbiamo deciso di portarci verso la birreria Spezial, in Obere Konigstrasse 10 che è risultata clamorosamente chiusa! Lo sconforto è stato notevole, ridotto solo di poco dall'acquisto successivo di bottiglie di Spezial Rauchbier, tanto da permetterci di arrancare appena al di là della strada e imbucarci nella birreria Fassla dove non abbiamo fatto in tempo ad apprezzare le piccole botti dalle quali ardite cameriere spillavano senza sosta per "sbattere" contro un gruppo di italiani "torreggiati", nel vero senso della parola, da Simone Dal Cortivo, birraio del vicentino Birrone, insieme a Paolo De Martin, sempre da me stimato birraio (dai Soci dea Bira al Birrificio Villa Pola e ora consulente on the road).


Simone Dal Cortivo e Paolo De Martin
L'occasione per scambiare idee e opinioni sulla birra a tutto campo, chissà magari da riprendere e sviluppare proprio su questo blog, e la strana sensazione che sia quasi più facile, per noi italiani, incontrarsi all'estero che in Madrepatria....

8 novembre 2010

Merano, la pils e il caviale

Due giorni a Merano per il notevolissimo (per affluenza e per rango di produttori) Wine Festival. Sono riuscito nella quasi incredibile impresa di non assaggiare alcun vino (tranne Prosecco e Cartizze di Le Colture) perché, per la prima volta, debuttavano le birre. Dieci produttori inclusa la "padrona di casa" Birra Forst e la "della famiglia" Menabrea, a seguire Amarcord, Birrificio del Ducato, Cittavecchia, Bruton, 32 Via dei Birrai, Turbacci, Zahre e Monastero di San Biagio (che ho assaggiato per la prima volta e su cui tornerò nei prossimi giorni). Location: la centralissima Kurhaus (si dirà al femminile o al maschile? Boh...)

L'ingresso della Kurhaus. Il biglietto costava 80 euro!

Pubblico numeroso con un biglietto da tagliar le gambe a sbevazzatori casuali, stand birrari piccolini ma attaccati uno all'altro. Sensazione, non mia ma dei protagonisti, positiva con inevitabili smagliature da debutto. Si può senza dubbio fare meglio il prossimo anno. Di sicuro c'è da correggere il tiro sulle birre in degustazione nel senso che i nostri potevano mettere in assaggio solo tre esempi della loro arte. Così mentre ho provato quasi tutte quelle di Zahre (fantastica l'Affumicata e sempre buona la Canapa), mi è sfuggita l'Ultima Luna del Ducato e tante altre belle loro cosette sulle quali spero presto di poter mettere le mani e il palato. A Merano si fa così ma, onestamente, non ne capisco il motivo. Solita marcia in più per il 32 Via dei Birrai, sia sotto il profilo della qualità dei prodotti di Fabiano sia dal punto di vista della grafica, design etc (torneremo presto anche su questo). D'altro canto 32 mi sembra proprio l'unico birrificio artigianale italiano che può vantare un'apparizione sull'iper elitaria rivista di design Wallpaper e scusate se è poco...

Le birredi Zahre. I ragazzi di Sauris hanno rinnovato il loro website
Serata con relativa cena nella dimora (definirla casa mi sembra riduttivo) della "first lady" della birra italiana ovvero Margherita Fuchs von Mannstein. Ospite straordinariamente affabile che ha saputo vincere un certo timore reverenziale provato dalla ridotta pattuglia giornalistica (almeno così è stato per me) di fronte a un arredamento degno dei migliori servizi di AD. Abbiamo naturalmente bevuto Birra Forst scoprendo un insospettabile ma affascinante abbinamento tra la Pils di casa e il Caviale Beluga con blinis all'orzo e luppolo. Il caviale era quello, eccellente a mio avviso ma molto più abbordabile - meno male - della bresciana Calvisius, geniale idea di un imprenditore lombardo del quale si dovrebbe scrivere di più, visto che, tra le altre cose, sembra esportare addirittura in Russia. Ma l'abbinamento è stato davvero ben fatto grazie a una pils che, volutamente, non è "troppo pils" nel senso amaro del termine e un caviale sì salato, ma molto delicato. Dopo tanta esclusività e atmosfera quasi d'altri tempi, rientro a Milano con "dimenticanza grave" al distributore di Brescia e conseguente "gita" di recupero. Come si dice, chi non ha la testa ha le gambe. O per lo meno, le ruote...

2 novembre 2010

Toronado (I left my heart in...)

Così cantava Tony Bennett, riferendosi tuttavia alla città di San Francisco. Posso condividere, ovviamente. Soprattutto perché gli abitanti della città che, dopo più di cinquant'anni, è tornata a vincere le World Series di baseball, avranno la possibilità di andare a festeggiare al Toronado Pub. Io invece no. E la cosa un po' mi deprime. A vederlo da fuori, in effetti, il locale non ti impressiona. La prima persona che incontri solitamente ti chiede i documenti per verificare se hai compiuto i 21anni regolamentari. La cosa è successa anche a me, la prima sera, e confesso che dopo un attimo di stupore mi ha gratificato non poco. La sera successiva invece, malgrado le mie vibranti proteste, sono passato con uno sguardo d'intesa e basta. Un'insegna azzurrina a dirti che sei arrivato e un antro in penombra con gente assiepata al bancone, a sgomitare per ottenere una birra.
L'ingresso del Toronado
Ambiente dunque che descriverei come essenziale, fatto per gente che beve birra senza troppe elucubrazioni e senza, forse, nemmeno guardarsi troppo intorno. Si guarda al massimo lo sport in televisione o, luce permettendo, la birra del vicino per capire, dalla sua faccia, se gli piace o no. E, nel primo caso, la si mette in scaletta per l'ordinazione successiva. Su una lavagna sei messo al corrente delle birre alla spina disponibili: molti micro californiani (Russian River, Lagunitas), un buon tour americano (Allagash, Dogfish Head), apparizioni belghe e tedesche. Non si mangia al Toronado. O meglio, non si mangia il cibo del Toronado. Perché non esiste. Se dopo qualche birra si sente la necessità, comprensibile, di confortare lo stomaco sempre più in balia di un "mare forza 9", basta uscire e girare a destra. La vetrina del Rosamunde Sausage Grill è una benedizione scesa (quasi) dal cielo. "Fanno una cosa sola", ha scritto un giornale locale, "ma la fanno da dio". Le salsicce più succulente, caloriche, incasinate (come sapori) che mi siano mai capitate sotto i denti. Le potete trovare, e provare, anche di carne d'anatra o di fagiano. Fatto l'acquisto, si rientra al Toronado. Perché il vostro panino lo potete mangiare lì. Se c'è coda al Rosamunde, fate l'ordinazione, tornate a bere birra e poi rientrate, al minuto consigliato, al Rosamunde. Non lo so, io sono stato in una sorta di estasi mistica per tutto il tempo e per le due serate consecutive passate al "Toromunde".

Rosamunde Sausage Grill
Tuttavia, visto che adesso mi sono ripreso, provo a buttare giù un'idea. Che ci vuole per aprire un Toronado anche in Italia? E un Rosamunde? Ambienti piccoli, arredamento spartano, un notevole, questo sì, impianto di spillatura e una selezione birraria da paura (ma anche le salsicce non scherzano). Togli invece l'atmosfera da "priorato di Sion" che ogni tanto si respira in qualche locale italiano, menu che gironzolano tristemente tra panini e piadine, piadine e panini (senza menzionare le spesso orrende bruschette), cocktail e vini. Sia il Toronado sia il Rosamunde invece fanno "una cosa sola, ma la fanno da dio". Difficile? Forse ma nel caso qualcuno ci stesse pensando sono pronto a darvi il mio indirizzo di casa. L'ItalyToronado lo vorrei vicino. Il più possibile.

29 ottobre 2010

On the road...

Rapido giro nel Nord Est per due visite previste da tempo. La prima è stata a Duino Aurisina, a due passi da Trieste, dove si trova la Birreria Bunker gestita con grandi capacità da Danijel Lovrecic. Danijel è un po' che lo conosco, ha saputo fare del suo locale una meta sicura per gli appassionati. Ottima scelta di birre e cucina di territorio interpretata con le birre (come la jota, tradizionale minestra triestina, con Duchesse de Bourgogne). Al suo invito per una cena con birre abbinate alla cucina slovena non abbiamo saputo dire di no. E per fortuna, posso dire a posteriori. Perché altrimenti non avrei avuto modo di provare i notevolissimi piatti di Uros Stefelin (mancano degli accenti ma non so come fare), giovane chef del ristorante dell'Hotel Triglav di Bled. Il menu comprendeva, cito le mie preferenze, un fantastico Carpaccio di cervo su terrina di fegato d'oca con scaglie di tartufo abbinato alla Silly Pils, un indimenticabile Brodo di castagne con risotto nero e filetto di branzino, abbinato alla Maredsous 6 e infine, mai provato prima, il Muflone cotto nella birra con una pallina di gelato alla barbabietola, abbinato alla Achel Brune. Il piatto migliore della serata, davvero straordinario. Se la cucina slovena è anche questa, allora tanto di cappello (odio dire "chapeau", fa troppo "Dolce&Gabbana")...
Danijel Lovrecic e Uros Stefelin
Serata successiva invece tutta dedicata alla nuova avventura di Denis Calzavara, già storico elemento chiave del Voodoo Child Pub di Caltana. In pochissimo tempo Denis ha messo su un locale a Camposampiero, in posizione strategica tra Padova, Treviso e Venezia. Si chiama Beer House e si trova in via Visentin 31. Una sessantina di posti a sedere, birre in bottiglia selezionate (così a memoria Brewdog, Sierra Nevada, St. Peter's, Dupont, Girardin, Cantillon...) e Augustiner (più altre) alla spina. Cucina alla birra semplice ma di grande soddisfazione (i ravioli al sugo di cervo alla Gouden Carolus erano spettacolari), e una piccola, ma promettente, cantina dove far maturare qualche birra che merita. Se siete in zona vi consiglio di farci una tappa, Denis è davvero bravo e merita il successo.
La cantina del Beer House

19 maggio 2010

Scotland Forever


Una quattro giorni di Edimburgo intensa, con finale al cardiopalma grazie alla simpatica nuvola vulcanica che scorrazza per i cieli d'Europa e che ci ha costretto a percorrere on the road tutta la Gran Bretagna per trascorrere una notte in bianco all'aeroporto di Gatwick e, da lì, saltare sul primo aereo per Milano. Ma a parte questo, Edimburgo è sempre stranamente affascinante. Sarà il contrasto tra l'austerità dei suoi palazzi e la cordialità degli abitanti, sarà che la Scozia si è distinta negli ultimi anni per le sue birre di notevole spessore. E allora l'elenco è abbastanza lungo: una Harviestoun Bitter&Twisted al Guildford Arms, una Deuchars Ipa all'Oxford Bar (grazie Vale per aver letto tutti i libri di Ian Rankin!), e poi una Brewdog Trashy Blond e una Brewdog The Physics, una Caledonian 80, una Cairngorn Trade Winds, una Lomond Gold e una Directors Courage, una Harviestoun Schiehallion e una Isle of Skye (non ci fanno solo il Talisker) Hebridean Gold. Insomma, se qualcuno mi pagasse delle corrispondenze (possibilmente alle cifre britanniche e non a quelle italiane) il pensiero di restarmene in terra scozzese si sarebbe fatto ancora più insistente. Difficile fare una classifica personale: a parte una prima Deuchars Ipa fuori forma, la seconda era da podio. Ma entrambe le Brewdog le ho trovate splendide, ritemprante la Caledonian 80 ed estremamente interessanti sia la Schiehallion, la lager di Harviestoun, sia la Trade Winds (mai bevuta prima). Il primo posto però va alla Bitter&Twisted che, non sarà tanto professionale, ma andava giù come acqua di fonte. Straordinarie tutte comunque, nella loro semplicità e nella loro bevibilità. Senza alchimie, senza pensieri, senza voli pindarici di degustazione paranoica. Nella valigia piena come un uovo sono riuscito a infilare tre pezzi: il libro "Beer Hunter, Whisky Chaser", dedicato a Michael Jackson, e due Harviestoun Ola Dubh, la Special 30 Reserve e la Special 40 Reserve. Prima o poi mi terranno il cuore in caldo. Che si sta già raffreddando per il fatto di essere tornato.

11 settembre 2009

International Beer Challenge a Londra


Una toccata e fuga in quel di Londra con la consueta depressione al rientro in Italia. L'occasione mi è stata data dall'International Beer Challenge dove ho svolto (spero bene) il compito di giudice, unico italiano insieme ad Agostino Arioli. La mia prima esperienza in un concorso internazionale è stata intensa e vibrante, soprattutto perché queste sono occasioni dove ovviamente si assaggia molto ma si impara ancora di più. Il fatto poi di essere stati praticamente imbullonati per tutto il tempo al White Horse ha reso la cosa ancora più entusiasmante perché pur testando una cinquantina di birre, da leggere lager fino a impegnative wood aged, farsi una pinta in piedi appoggiati al bancone del bar è per me la sensazione più gratificante. Ergo, serata prima del concorso a bere al WH, giornata successiva spesa in assaggi, finale con ultimi giri di pinte e trasferimento finale al The Rake, piccolo ma sapiente pub in Borough Market per passare in rassegna quasi tutte le birre di Brewdog con finalone di due diverse annate di Tokyo. Fantastico tutto, anche l'allarme antincendio suonato alle due di notte nel mio alberghino di Fulham Broadway. Infine qualche considerazione anche per spiegare la foto scelta: gli assaggi erano tutti naturalmente alla cieca; provare diverse categorie senza delle nette interruzioni (impossibili per questioni di tempo) facilita le prime birre della categoria "superiore" (ovvero dopo tante lager, alcune davvero acquette, la prima bitter ale mi è sembrata paradisiaca); gli assaggi del mio tavolo si sono conclusi, lo abbiamo saputo solo dopo, con tre annate diverse della famosa o famigerata Utopias di Samuel Adams (la foto) che, a onor del vero, non mi ha entusiasmato follemente. La bottiglia è da scaffale dei memorabilia su questo non discuto, ma mi è sembrata un po' sbilanciata, "violentemente" alcolica, troppo muscolare... Insomma, non la mia birra anche se, in una versione, un ritorno di aromi vanigliati era senza dubbio interessante...
Di Brewdog invece parlo bene: Punk Ipa, Edge e Trashy Blonde erano eccellenti, della Tokyo onestamente ho apprezzato di più la vecchia annata perché mi sembrava più fine e austera, più completa. La nuova Tokyo alla spina l'abbiamo ordinata in bicchieri da assaggio ovvero un terzo di pinta allo stratosferico costo di 6 sterline l'uno. Non male, no? Se adesso Agostino aumenta i prezzi al Birrificio sapete da dove gli è venuta l'idea... ;-)

22 aprile 2009

Dirty Old Town


Un fine settimana di rapina, al lavoro ovviamente... Ma mancavo da Dublino da troppo tempo per rimandare ancora il mio consueto pellegrinaggio a Temple Bar e così fuga per la vittoria approfittando di un buon prezzo sul volo Aer Lingus da Linate in compagnia di Valentina e di amici fidati. Dublino ha pochi monumenti degni di nota, niente di paragonabile a Londra o a Parigi nè tantomeno a Roma, ma è un luogo dell'anima, ti entra sotto pelle in poche ore e, se hai il carattere giusto, non ti abbandona più. Quindi prima tappa, come sempre, al Mulligan's di Poolbeg Street che resiste alle falangi di turisti e mantiene la vecchia, solida, atmosfera del pub senza fronzoli, solo legno e spine. Qui la prima pinta di Guinness o di "black stuff" che dir si voglia. La prima di tante. Era dai tempi di Praga o della Croazia che non bevevo così di gusto, solo per sentirmi bagnare la gola e provare il pulito amaro finale di questa stout che a lungo è stata in cima alla lista dei miei desideri quando, vent'anni fa, ho cominciato a bere birra seriamente. Guinness, Guinness, Guinness... Nei pub ma anche nella Storehouse, dove ho incontrato anche, pur non riuscendo a metterlo a fuoco, Raimondo Cetani birraio dell'Hibu... Piccolo il mondo della birra, senile la mia mente smemorata...
Ma se di Guinness a Dublino potrei vivere, va detto che ho trovato grande soddisfazione nel mandare giù la Plain Porter di The Porterhouse e soprattutto la Galway Hooker, una formidabile irish pale ale che non conoscevo. Così come non conoscevo il The Bull & Castle (http://www.indublin.ie/Venues/Pubs/The_Bull_-_Castle_Gastro_Pub_-_Beer_Hall.aspx), gastropub a due passi dalla Christ Church e piccolo tesoro di microproduzioni irlandesi: da quelle delle isole Aran, che ho portato a casa, a quelle di Whitewater Brewery e di Franciscan Well che invece mi garantiscono un ritorno, spero presto, nell'isola di smeraldo.