24 gennaio 2012

Questione di etichetta - Approfondimento

La Re Hop di Toccalmatto
"Battere il ferro finché è caldo". Vale spesso nella vita, vale sempre in ambito giornalistico. Quando un argomento tira è praticamente scontato tornarci sopra. In verità ci si dovrebbe tornare subito e non con dei giorni di ritardo, ma tant'è... Allora, iniziamo con il dire che nel post precedente (mi riferisco a questo) avevo posto delle domande più che dare delle risposte. Mi sembra evidente che ci fosse un po' di retorica nelle domande perché credo sia chiaro, per averlo sostenuto molte volte e per il mio ruolo, che sono il primo a credere nel valore della comunicazione genericamente intesa.
Tra le risposte arrivate mi trovo concorde con quanto scritto da Paolo Turco (fratello di Andrea), soprattutto  mi ritrovo anche io a scegliere delle birre dall'aspetto esteriore. Certo, prima arriva la conoscenza della birra, poi la fiducia nel produttore e ancora, i giudizi degli esperti che leggo in rete o il suggerimento di qualcuno di cui mi fido. Tuttavia è sotto gli occhi di tutti la moltiplicazione vertiginosa di marchi stranieri fino a qualche anno fa totalmente sconosciuti in Italia e la moltiplicazione di etichette italiane (sarebbe al riguardo interessante calcolare la media per birrificio e capire se c'è una ragione o se è solo per il piacere di sfornare novità). Dal mio punto di vista, se qualche anno fa non avevo problemi a individuare birrifici e birre da segnalare sulla stampa, oggi è un bel potpourri con il quale stare al passo non è sempre facile. Sgombriamo subito eventuali incomprensioni: io sono felicissimo della moltiplicazione che si traduce in scelta, concorrenza e, perché no, chance di lavoro per chi fa il mio mestiere. Ma la moltiplicazione comporta di conseguenza una maggiore "lotta" per mettersi in luce sul mercato.
Siamo proprio sicuri che la qualità basti? Io mi guardo in giro e vedo che la maggior parte dei prodotti di qualità ha anche una bella immagine e non credo sia un caso. Immagine significa una bella confezione, una grafica azzeccata, ma immagine significa anche trovare un modo per far parlare di sé e per colpire il pubblico "non consapevole". Ovvero quel pubblico, che è la maggioranza, che entra in un beershop (ma consideriamo anche le enoteche e i negozi "gourmet") per curiosità e, certo magari si fa consigliare dal titolare, ma magari pesca la bottiglia che più l'acchiappa... Se capita a Paolo Turco e a me, capiterà pure a qualcun altro... O no? In questo senso quindi sposo anche la causa di Massimo Cardellini, in prima linea nella promozione di Apecchio Città della Birra, che sottolinea con forza il potere dell'immagine e della comunicazione.
Un'etichetta che si ricorda...
Investire in questa direzione significa avere la volontà, e i nervi saldi, di decidere quante risorse destinare al parametro "immagine e comunicazione" e lavorarci sopra. E, per essere del tutto chiari, all'inizio non servono dei grandi capitali. Parlerò per esperienza personale. Gli articoli che mi vengono commissionati sono quasi tutti ordinati all'ultimo minuto utile. Il lavoro ultimamente va così, lo dico per chi ancora fosse ottimista sul mestiere del giornalista-comunicatore, e l'argomento probabilmente lo riprenderò a breve. Ma questo è quanto. Se la commissione arriva io tendo a prenderla al volo (i freelance sono pagati a cottimo) e altrettanto al volo faccio richiesta di immagini in alta definizione. Spesso, non sempre, ma spesso, la mia richiesta cade nel vuoto oppure arrivano foto che sembrano fatte in cortile dalla nonna che soffre di un maledetto tremolio alla mano. E quindi? E quindi niente foto, niente pezzo o salti mortali tripli per portarlo a casa. E' brutale, è concreto, ma è così. Cosa costa organizzarsi per avere un pacchetto di foto decenti (non serve Helmut Newton) di bottiglie, impianto e birraio pronte da inviare al malcapitato giornalista di turno che le richiede?
Con questo siamo davvero all'ABC della comunicazione d'azienda, eppure un numero notevole di birrifici non considera proprio questa elementare accortezza. Quindi non è solo una questione di mera etichetta (ripeto, quella che non piace a me può piacere ad altri e discutendo di questo non andiamo da nessuna parte), è una questione più ampia di essere sul mercato con raziocinio. Almeno basico. Soprattutto considerando due elementi incontrovertibili: la birra artigianale "tira" e nella birra artigianale la competizione si sta infiammando. C'è quindi ancora del tempo per darsi da fare, ma non credo sia un tempo illimitato. Non lo è mai del resto...

2 commenti:

Marco Altamore ha detto...

Concordo a pieno sull'assenza di immagine e comunicazione aziendale di una buona parte di birrifici nel nostro territorio italiano. Che le etichette possano dare un'immagine di attrazione non lo metto in dubbio, ma non meno importante è la scarsa immagine che mi viene rivolta da parecchi birrifici attraverso un carente e spoglio sito internet che dovrebbe rappresentare la vera e propria immagine e cultura organizzativa dell' azienda e delle persone che ci stanno dietro. Molte birre Made in Italy ancora, non posso acquistarle per mancanza di distribuzione. Il solo modo che ho di vedere l'etichette di parecchie birre non è in un scaffale di una birroteca o market, ma attraverso un file immagine di bassa qualità su internet, ma entrando dentro siti internet di determinati birrifici passa la voglia di acquistare e bere una birra potenzialmente buona per il palato.

Paolo Turco ha detto...

Ovviamente ci troviamo d'accordo su quasi tutti gli aspetti considerati nel tuo articolo.
Credo che questa linea di pensiero sia in larga parte condivisa da tutte le persone coinvolte nel movimento.
Mi ritengo fortunato di non scrivere di birra se ogni giorno bisogna affrontare le mille problematiche da te spiegate nell'articolo.

Altro spunto potrebbe essere quello dei cercare di capire come all'estero (birrifici, venditori e consumatori) percepiscono la comunicazione dei prodotti italiani.


Ti ringrazio per la doppia citazione!