27 giugno 2011

Tempo di lasciare il nido?

La testata di Ale Street News
E' un editoriale molto interessante quello di Tony Forder, direttore di Ale Street News, pubblicazione "arraffata" quando ero al Blind Tiger di New York e, credo, considerata tra le riviste birrarie più autorevoli degli States. Nel pezzo intitolato "Time to leave the Nest", Forder prende spunto da due recenti pubblicità televisive: la prima è di una grande catena di locali a stelle e strisce, i Friday's, che reclamizza alcuni piatti preparati con la Harpoon Ipa, l'altra è di Samuel Adams e parla di dry hopping. La prima considerazione che fa Forder è "game over, we won". E quel "we" è da considerarsi come la birra artigianale americana che, con lo sbarco sui media generalisti ha superato lo spartiacque della nicchia e ormai parla alla massa di consumatori senza timori...
La copertina di ASN Giugno - Luglio 2011
Sembra tuttavia esserci una specie di preoccupazione tra i produttori: alcuni hanno da sempre sposato le politiche di espansione del proprio prodotto, Samuel Adams è un esempio come lo è Sierra Nevada, altri invece preferiscono restare nelle loro, spesso però già ragguardevoli, dimensioni temendo che la crescita possa portare al rischio omogeneizzazione/globalizzazione che ha già contraddistinto il percorso delle grandi birrerie diventate, con il tempo, vere e proprie multinazionali. Insomma, è il tema caldo del momento che gli americani, con proporzioni enormemente diverse, vivono come noi. Pubblicità televisive a parte, ricordiamo che da noi il tema luppoli è stato affrontato da Birra Poretti in maniera alquanto discutibile, quello della crescita della birra artigianale come quote di mercato, fenomeno che in Usa è ben evidente rischierebbe di mettere a repentaglio la qualità della birra stessa. Peggio sarebbe se il rischio fosse quello di mettere a repentaglio l'immagine di prodotti esclusivi, per pochi eletti intenditori o, peggio ancora, per acquirenti danarosi. Che, per certi aspetti è quello che anche la birra artigianale in Italia. Conforta sapere che in America si stanno ponendo certe domande, ma conforta per il tristanzuolo "mal comune, mezzo gaudio". Forder alla fine si schiera per la crescita e per la diffusione anche perché, ritiene, sia un fenomeno inarrestabile. E io sono tentato a schierarmi con lui, in un'ottica italiana ovviamente. C'è bisogno di crescere e c'è bisogno di allargare le schiere di consumatori, anche a costo di correre dei rischi che cerco di sintetizzare: prodotti non sempre in forma per problematiche legate alla distribuzione e/o alla gestione da parte dei publican, maggiore diffusione di birre "normali" ovvero adatte ai palati dei più. La continua ricerca dello "stupefacente" comporta spesso ottime recensioni da parte della critica, professionale e non, ma spinge costantemente verso il vertice che, per essere tale, è di piccole dimensioni quantitative. Ultraluppolature, barrique, blend possono andare bene per il consumatore evoluto, sicuramente per il beer geek, non credo molto per quella larga fetta di pubblico che vuole bere birra buona, gusto e profumi integri e caratterizzati, e che esiste. Ne sono sicuro. Insomma, tra il mass market e il lavoro di cesello artistico-creativo, c'è spazio per tante ottima birra senza elucubrazioni o masturbazioni mentali. Ed è su questo tipo di birra che i birrai italiani dovrebbero puntare...

22 giugno 2011

Involtini di carne salada alla Achel Blonde

Ritorna su Birragenda Salvatore Garofalo, il mio chef a la bière preferito, con una ricetta che mi aveva girato qualche tempo fa e che, colpa mia, avevo perso nel "dedalo" del mio Mac. Faccio pubblica ammenda e privata acquolina però per questo piatto perché, da un lato, vado matto per la carne salada, dall'altro trovo la Achel Blonde una birra notevole, senza iperboli e senza "follie". Anzi, forse la trovo notevole proprio per questo. Ergo, basta indugi e spazio alla ricetta: ingredienti e preparazione. Come sempre, grazie Salvatore!
M.M.


INVOLTINI DI CARNE SALADA
CON SEDANO BIANCO CROCCANTE
E FONDUTA DI PARMIGIANO
ALLA “ACHEL BLONDE”

Il manzo marinato nella Achel Blonde

INGREDIENTI PER 2 PORZIONI:

8 fette di carne salada non troppo sottili
2 coste di sedano bianco
50 g di Parmigiano Reggiano
100 dl di latte
½ cucchiaino di Maizena
Una Achel Blonde
Una noce di burro
Olio e succo di limone, sale

PROCEDIMENTO:

Per la fonduta di parmigiano:
Sciogliere in poca acqua la Maizena e versarla in un pentolino assieme al latte. Unirvi la birra e la noce di burro e un pizzico di sale.
Portare a ebollizione mescolando continuamente.
Togliere dal fuoco il pentolino, unire al latte il parmigiano grattuggiato e mescolare bene.
Lasciar raffreddare.

Pelare con l’aiuto di un pelapatate il sedano.
Tagliarlo a losanghe (quindi per il lungo) abbastanza finemente.
Porlo in una ciotola con acqua e ghiaccio e lasciarvelo per almeno mezz’ora. Questo accorgimento farà arricciare il sedano tagliato e gli conferirà la giusta croccantezza.

Stendere su un tagliere le fette di carne salada a coppia.
Scolare il sedano dall’acqua e asciugarlo tamponandolo con della carta.
Condire il sedano con un po’ di olio, limone e sale e porlo  al centro di ogni coppia di fette di carne salada. Arrotolare la carne salada per ottenere così gli involtini.
Disporre gli involtini sul piatto di portata.
Intiepidire la fonduta al parmigiano e versarla sugli involtini.
Guarnire con delle erbe a piacere.


21 giugno 2011

Non chiedete cosa possa fare Unionbirrai per voi...

"Non chiedete cosa possa fare il paese per voi: chiedete cosa potete fare voi per il paese". Ecco questa era la frase giusta, detta da John Fitzgerald Kennedy al discorso inaugurale della sua presidenza. Ora, io ho pensato di applicarla a Unionbirrai perché Google Alert mi ha fatto leggere un articolo de Il Giornale, che per inciso non leggo più dal 1994 ovvero quando Montanelli dovette abbandonare, dove veniva citata nientepopodimenoche la storica associazione di birrifici artigianali made in Italy. L'articolo è un po' lungo, e Unionbirrai è citata più per scherzo che per altro motivo, ma l'argomento non è di nessun interesse perché mette a fuoco la secolare questione delle lobby che, in Italia, ci sono sempre state ma sempre, come dire, coperte. Uno dei tanti, innumerevoli, esempi dell'ipocrisia all'italiana, del "si fa, ma non si dice".
Invece fare lobby, in altri paesi di più consolidata tradizione democratica come gli Usa, è pratica ammessa ma regolata. Soprattutto la si fa alla luce del sole. Tuttavia la mia non è una dissertazione sulle lobby, semmai una mini dissertazione su Unionbirrai che potrebbe fare di più di quello che fa. Non solo, meriterebbe di fare di più di quello che fa. L'ho pensato anche qualche giorno fa, alla serata di consegna diplomi Unionbirrai Beer Tasters allo Scott Joplin di Milano, presenti Simone Monetti, arrivato da Bologna, e l'inossidabile Marco Giannasso. Persone che hanno tutta la mia stima.
Quello che tuttavia sento è che, mentre i singoli birrifici si stanno facendo strada, chi più chi meno, nel mare magnum del mercato, l'associazione stenta a trovare un proprio ruolo da protagonista. Premetto che parlo da esterno, quindi molte cose non le conosco e ribadisco che le mie sono sensazioni, non certezze. Tuttavia trovo, ad esempio, che 300 euro l'anno d'iscrizione a UB per un birrificio siano niente, se il birrificio è avviato e di comprovato successo, appena il minimo indispensabile se si tratta di una nuova attività. Perché non si stabilisce una cifra in base agli ettolitri prodotti? Non sono un economista né un ragioniere, ma una cifra fissa mi appare ridicola soprattutto se, come sembra, UB ha sempre il budget ridotto al lumicino. La questione economica è la cartina di tornasole della volontà dei soci di far crescere UB come associazione che tutela gli interessi dei microbirrifici aderenti e promuove la cultura artigianalbirraria in generale. A meno che non si confidi sempre e comunque nel volontariato a macchia di leopardo. Volontariato che si poteva giustificare quando la birra artigianale italiana muoveva i primi passi, un po' meno oggi che i birrai, o almeno una parte di essi, godono di buona salute.
UB è una realtà storica, se definiamo storico il movimento della birra artigianale italiana, ma un po' impalpabile. Tuttavia non credo sia da imputarsi all'inefficienza dei suoi coordinatori, direttori o comunque li vogliate chiamare. Credo sia una responsabilità condivisa da tutti gli aderenti. E allora forse si dovrebbe cominciare a parlarsi chiaro: ci si crede o no? A parole, ne sono certo, sarà un coro di sì (oddio, un coro proprio unanime magari no), ma nei fatti? I fatti si misurano anche in euro, ai quali seguono i controlli di spesa e la responsabilità che deriva da qualunque rapporto di lavoro. Ribadisco, parlo da esterno, e sono pronto alle smentite. Non ho parlato con Simone di questo mio post che è frutto di una coincidenza giornalistica, di un paio di birre bevute in un pub e di qualche riflessione. Ma negli ultimi mesi ho letto e ascoltato torrenti di parole, ad alcuni ho pure dato il mio contributo, con UB a volte incensata, a volte messa sulla graticola, chi spara a zero su quelli di UB che sono entrati anche in Assobirra, chi vuole (o voleva? boh?) fare un'associazione alternativa. Parole, parole, parole. Nel frattempo, credetemi, c'è già chi è passato all'azione...

20 giugno 2011

Affezionarsi a una birra. Si può?

Berlina, una Ipa in Patagonia
Mi capita sempre più spesso, ma credo che tra Belgio e Stati Uniti la cosa abba preso dei risvolti quasi drammatici. Non faccio in tempo a dire quanto mi piace una certa birra che subito mi ritrovo a berne una diversa. E' colpa mia, ovviamente. Ma da un lato sono attratto dalle novità, dalle birre che non ho mai provato, da quelle che trovo solo sul posto perché la distribuzione è prettamente locale. Dall'altro però ho nostalgia di quando bevevo una pinta dietro l'altra di Guinness, in Italia, o di Courage Best Bitter, nelle vacanze studio in Inghilterra. Mi mancano insomma le birre "d'affetto", quelle che ti davano una certa sicurezza, quelle del "vado al pub a farmi una ...".
Oggi, vuoi per mestiere vuoi per passione, provo questa e quella. Passo da una stout a una saison, quando riesco a rimanere negli stili certi, assaggiando e assaggiando. Di rado, riprovando. La mia cantina rispecchia i tempi: non credo di avere più di due etichette uguali e se qualcuno mi chiede quale è la mia birra preferita, mi rifugio nella risposta classica anche se vera "è impossibile da dire, dipende dal momento, dall'umore, dall'abbinamento, etc...". Oppure in quella, meno classica ma altrettanto vera: "la miglior ultima birra che ho bevuto".
Certo, credo che la moltiplicazione di etichette birrarie che c'è stata negli ultimi anni in Italia sia una fortuna per tutti gli appassionati e per chi, come me, scrive per mestiere di birra. L'ampliamento della scelta è sotto gli occhi di tutti e si va da importazioni organizzate e continuative di piccoli birrifici a singoli fusti "extrafantaspecial edition" che arrivano una volta l'anno e in selezionatissimi locali. Ma se dovessi dire quale è la "mia" birra.... In tutta onestà, dovrei allargare le braccia. Non si stava meglio quando si stava peggio, questo è chiaro. E' solo un pizzico di saudade che ogni tanto mi piglia...

16 giugno 2011

Drinking in New York City

L'interno del Blind Tiger
Due giorni a New York sono davvero pochissimi, però perché buttarli via. Indi per cui siamo sbarcati nella Grande Mela principalmente per fare i turisti, poi per sopravvivere a un caldo record che non ci saremmo mai aspettati (37 gradi trasformano Manhattan in un deserto rovente che nemmeno l'ombra di Central Park riesce a mitigare) e infine per berci qualche birra che in Italia non ci è mai capitato di trovare. Prima tappa dunque in un pub di cui avevo sentito parlare ma che, l'ultima volta a NYC avevo tralasciato per privilegiare il più noto Gingerman. Trattasi del Blind Tiger di Bleecker Street, nel Village ovvero il quartiere diventato famoso negli anni Sessanta per gli artisti (pochi) che sarebbero diventati famosi e gli artisti (la maggior parte) che sarebbero rimasti tale almeno nelle loro speranze. Il Village è comunque un posto strano, diverso dalla Manhattan verticale dei grandi palazzi e delle megavetrine. A me è sempre piaciuto. Qui trovi tutte le cucine etniche del mondo (noi abbiamo cenato all'Hummus Place) e si respira un'atmosfera da media città di provincia. Il Blind Tiger è una specie di antro oscuro )come dimostra anche la foto fatta senza flash per non rompere...), molto raccolto e credo frequentato solo da gente che, prima di entrare, sa già di non essere in cerca di una semplice Bud Light. La nostra serata, ad esempio, è stata ravvivata da una Blast Double (o Imperial) Ipa di Brooklyn Brewery dal profumo fantastico di luppoli freschi e da una scorrevolezza in gola tremenda. Da berne a litri, tanto poi si chiama un taxi o si prende la metro. Tuttavia, visto che la lista "on tap" era assai interessante, e abbiamo volutamente tralasciato i vari vintage inglesi e belgi, io mi sono lanciato su Stone Brewing e sulla loro Sublimely Self-Righthouse Double Ipa. L'ho scelta anche per il nome da menu di alta classe (tipo "raviolini tirati a mano farciti di carne d'oca allevata in cortile sotto il sole e conditi con timo della Lunigiana, radici di zenzero della Manciuria liberata e bla bla bla...), ma dopo il primo sorso l'ho trovata pazzescamente buona, una formidabile Black Ipa che non si lascia capire immediatamente e che, forse proprio per questo, è da amore vero.
Interno dell'Heartland Brewery a due passi dal Pier 17
Ergo, credo sia chiaro che raccomando vivamente un passaggio dal Blind Tiger se si va a New York. Tuttavia raccomando con (quasi) la stessa convinzione anche la Heartland Brewery di cui ho già avuto modo di parlare. Ho deciso di tornarci anche questa volta perché da un lato ero consapevole di aver lasciato le cose incompiute, dall'altro perché i nachos presenti tra gli "starter" del menu erano quanto di meglio ci potesse essere per dare una giustificazione alle troppe birre ordinate. Comunque questa volta ho tagliato corto e benché detesti cordialmente i bicchierini sampler da due sorsi (già trovo un po' irritante la mezza pinta) ho chiesto il "full sampler" ovvero sette birre in formato mignon, tutte le regolari più una stagionale. L'elenco completo lo trovate qui, ma ho trovato molto interessante per i suoi chiari profumi agrumati d'arancia la Indian River Light, molto buona anche la Farmer Jon's Oatmeal stout, caffettosissima che sembrerebbe quasi fatta in collaborazione con Starbucks, forse la migliore del gruppo, insieme alla stagionale Belgian Ipa, molto pulita e caratterizzata. Discrete comunque la Indiana Pale Ale Ipa, ma inferiore alla Belgian, la Red Rooster Ale e la Harvest Wheat Beer. Da dimenticare invece la Cornhusker Lager. Insomma, qualche alto, alcuni medi, qualche basso, ma una sosta, magari a pranzo o verso metà pomeriggio, in una Heartland Brewery di New York non è tempo buttato via. Come, del resto, non è mai tempo buttato via fare un salto sotto l'ombra dell'Empire State Building...

14 giugno 2011

Una città da bere - Philadelphia Beer Week

The Nodding Head Brewery

Me l’avessero detto prima, forse, non ci avrei creduto. Oddio, quel minimo di esperienza nordamericana fatta lo scorso ottobre mi aveva insegnato che, città Usa che vai, ottimi locali che trovi. Ma Filadelfia si distingue da San Francisco o da New York per alcuni aspetti: in primo luogo la quantità di posti dove si possono trovare un bel “pacchetto di mischia” di birre artigianali (chissà questa parola cosa vorrà dire in America?). In gran parte prodotte nella East Cost, ma con una bella presenza pure di birrifici californiani e dintorni. In secondo luogo, Filadelfia possiede un centro storico di dimensioni limitate, per gli standard statunitensi, facile quindi da girare a piedi e considerato che molti dei locali più interessanti sono proprio nel centro storico, ecco che la cosa assume un significato ancora più piacevole… 
Il Mc Gillin's Old Ale House
Infine Filadelfia presenta, in città, alcuni microbirrifici e brewpub di tutto rispetto. Dalla Philadelphia Brewing alla Yard’s Brewing, di cui mantengo il ricordo soprattutto della loro Brawler, fino alla Nodding Head Brewery, un brewpub dove la “perla” mi è sembrata essere una brown ale chiamata Grog.
Tra i locali, se il Monk’s Cafe brilla soprattutto per la grande passione “belgofila” del suo titolare che ha fatto dire a Michael Jackson “è semplicemente il miglior belgian cafe degli Stati Uniti”, io mi sono trovato molto bene anche al Farmer’s Cabinet, scoperto su suggerimento di Joe Sixpack, al Philadelphia bar & restaurant, dove mi hanno un po’ "piallato" a forza di ipa e double ipa, e al Mc Gillin’s Old Ale House che si vanta di essere la più vecchia insegna birraria della città di Benjamin Franklin. Il quale, tra l’altro, apprezzava in modo particolare la birra.
Luci nella notte: l'insegna del Monk's Cafe
Ora, se mettete insieme tutti questi locali, e molti altri ancora, e ne moltiplicate il potenziale per il coefficiente dato da una settimana, la Philly Beer Week, dove tutta o quasi la città è sembrata essere coinvolta (è stato addirittura organizzato un pub crawl a piedi con guide turistiche che raccontavano edifici e monumenti e poi ti portavano nei pub), il risultato è stato quello di un'assoluta goduria dei sensi. Mi è difficile ricordare tutte le birre bevute, dalla tarda mattinata fino a sera, anche se da qualche parte sono sicuro di essermele segnate. Ma non credo sia questa la cosa più importante da raccontare. La cosa più importante è aver vissuto una città che si vanta di essere la più "birraria" degli Stati Uniti (anche se il newyorchese Garrett Oliver della Brooklyn Brewery non si è detto d'accordo), una città soprattutto dove la birra entra anche nei ristoranti più blasonati e negli hotel di lusso, la cerimonia d'apertura prevede una "corsa" a tappe di locale in locale e si passa da una taverna rumorosa e quasi sordida all'immacolata atmosfera dell'hotel Four Seasons. Una città che, se nella Philly Beer Week sfiora quasi la vertigine da appuntamenti birrari, come ho cercato di spiegare qui, è secondo me una delle più interessanti da visitare e vivere tutto l'anno.