31 maggio 2011

Cantillon Redemption

A tu per tu con Jean Van Roy
L'ho confessato, credo, più volte. Anche su questo blog. Il lambic non mi ha mai esaltato molto. Un po' meglio forse la gueuze, ma in tutta onestà la fermentazione spontanea la trovavo sempre come un assortito mix di profumi assurdi, poco affascinanti, spesso ostili. Detto questo sono sempre stato convinto che gli ultimi esempi di fermentazione spontanea, la tradizionale produzione di lambic tanto per intenderci, andassero difesi a spada tratta contro tutti i rischi di estinzione. E questo semplicemente perché la differenza è sempre sinonimo di ricchezza. E poco importava se, qualora avessi dovuto portare con me una sola bottiglia di birra su un'isola deserta, non avrei mai e poi mai scelto una bottiglia di lambic, gueuze, kriek. Nemmeno di Cantillon, ovvero del "mostro sacro" in tema di lieviti selvaggi. Fatto sta che andare sul posto ti offre l'opportunità di crescere e cambiare, almeno in parte, idea. Quindi, una tre giorni a Bruxelles, mi ha dato l'opportunità di fare il pellegrinaggio in rue Gheude e visitare la suggestiva, "ragnatelosa" birreria fondata all'inizio del secolo scorso. Conosco bene i meccanismi psicologici del contesto in cui si beve una cosa: il whisky scozzese sembra più buono nelle Highlands o nello Speyside, lo Champagne è più effervescente tra i vigneti nei paraggi di Reims e pure il crudo di Parma ha tutto un altro profumo se lo guardi da Torrechiara. Però io sono andato da Cantillon con tutte le mie prevenzioni strette sotto braccio e l'ho fatto innanzitutto per espiare il senso di colpa che avevo per non esserci mai stato prima. Insomma più o meno come sono stato a vedere i quadri di Lucio Fontana. Avevo voglia di conoscerli, ma non mi piacevano prima e non mi sono piaciuti dopo.
La vasca di raffreddamento
Invece, al termine di una visita con interessante conversazione con l'amico Alberto Cardoso, ho incontrato Jean Van Roy, il titolare, e con lui ho iniziato a bere. Ed è stato come se partisse un tappo di spumante. Un "bop" cerebrale che ha stupito me in primo luogo. Certo, ho apprezzato il fascino della vecchia fabbrica, l'attaccamento alla tradizione interpretata in modo rigoroso, la sottile e giustificata polemica con chi fa gueuze per modo di dire. "Politicamente", se vogliamo dirla così, mi ero allineato, ma questo non ammetteva come conseguenza ineluttabile il fatto che mi dovessero anche piacere le birre. Ero insomma nell'atteggiamento gustativo di chi ama la frase, falsamente attribuita a Voltaire, "Disapprovo quello che dite, ma difenderò fino alla morte il vostro diritto di dirlo". Questo almeno fino al primo sorso. Poi, appunto, mi sono fatto avviluppare da profumo e sapore. Non li ho più trovati ostili, solo complessi. Quasi ti costringessero a pensare a quello che stavi bevendo. Ed è stato, lo confesso, molto esaltante. Tanto che la sera stessa mi sono ritrovato a bere Cantillon anche al Moeder Lambic di place Fontainas. Certo, non "a secchiate" come ogni tanto mi capita di leggere, ma con più passione emotiva. Non solo con il semplice rispetto che si deve a chi fa della sua attività economica una vera e propria missione.

23 maggio 2011

Streets (and beers) of Philadelphia

Philadelphia, here we go!
Philadelphia (Usa) è più Sylvester Stallone o Tom Hanks nell'omonimo film? Sondaggio non facile come potrebbe sembrare perché la nostalgia adolescenziale mi farebbe dire Rocky (i primi due, poi è stata una tragedia), il politically correct mi farebbe propendere per il secondo... Vabbé, allora decido che Filadelfia è birra. Fortissimamente birra, soprattutto nella decina di giorni che vanno dal 3 giugno al 12 giugno, quando in città si celebra la Philly Beer Week alla quale sono stato invitato e alla quale parteciperò con notevole gaudio anche nel marasma di impegni lavorativi che contraddistinguono il rush finale che porta all'estate. A dire il vero l'invito in terra americana e nella città dell'indipendenza è stato fatto a Valentina. Io mi sono agilmente imbucato e sono pronto a ritrovare le straordinarie birre di Deschutes Brewery, che avevo solo assaggiato allo European Beer Star dello scorso novembre, oppure quelle della Flying Fish, di Saranac, della Harpoon, approfittandone anche per dare una ripassata a quelle della Dogfish Head, Sierra Nevada, Flying Dog. Insomma, dubito che morirò di sete nelle giornate a Filadelfia. La Beer Week si annuncia del resto straordinariamente intensa grazie anche al coinvolgimento di numerosi locali birrari cittadini che apriranno le porte a tasting vari organizzati dalle birrerie presenti alla manifestazione. Un'idea, quando vedrò in prima persona capirò se confermare o meno, che potrebbe essere importata anche in Italia. A me, ad esempio, la sperimentazione riminese fatta da Unionbirrai qualche anno fa in occasione di Pianeta Birra mi era piaciuta...

19 maggio 2011

Il ritorno della bionda...

Titolo balengo, lo ammetto. Visto che sono anni che contesto l'uso della parola "bionda" in riferimento alla birra e devo aver letto decine e decine di articoli dal triste titolo tipo "Una bionda sotto l'ombrellone" e via di questo passo. Ma il titolo si spiega con la presentazione di questa mattina a Milano della ricerca commissionata da Assobirra e firmata Makno, una pratica annuale che solitamente precede la, per me, fondamentale pubblicazione dell'Annual Report e che serve per mettere in luce alcune tendenze o, come in questo caso, alcune conferme. Allora la notizia principale uscita dalla ricerca è che il 58,5% degli intervistati quando decidono di bere una birra la scelgono, 9 volte su 10, "bionda". In Italia, sempre secondo la ricerca, si consumano 15 milioni di ettolitri di birra chiara (in effetti è così che la chiamano in Assobirra) ovvero 25 dei 28 litri che sembrano essere il consumo medio pro capite. Inoltre sembra piacere soprattutto la chiara in bottiglia, tre quarti delle vendite, mentre alla spina resta solo il 15% e la lattina riveste il 10% finale.
Dannata "bionda"
Notizia che, onestamente e percentuali a parte, non mi sorprende più di tanto. Che lager e pils, o simil pils, dominino il mercato è un dato di fatto da quando Josef Groll decise di andare a Pilsen per vedere di risolvere i problemi. Che nell'immaginario collettivo la birra chiara sia la birra per eccellenza ci sta. E forse ci sta anche in queste percentuali. Che sono di tipo bulgaro quando in Bulgaria ci stava Ceausescu (che però stava in Romania, comunque il concetto è quello...) o, se preferite, di tipo socialista ai tempi di Craxi. Ma la cosa fa riflettere chi, e mi ci metto dentro anche io, è da qualche tempo che batte e ribatte sul chiodo dell'incredibile varietà di stili birrari, colori inclusi dunque, sulla ricchezza creativa che sta dietro il mondo delle birre, sull'originalità interpretativa dei piccoli produttori italiani, di quelli belgi e bla, bla, bla... Poi ecco che arriva questa ricerca ed ecco che siamo ancora alla birra chiara. Non ne faccio un dramma naturalmente, si può sopravvivere. Solo che quando leggo queste notizie mi chiedo quanto siano aderenti alla realtà dei fatti i successi dei microbirrifici, quanto la gente comune sappia di quello che in molti ambienti (giornali, web, forum e quant'altro) si da non solo per scontato, ma per ampiamente superato. Ovvero, in certi ambiti si spacca il capello, il luppolo forse, in quattro, si filosofeggia sul concetto di vintage e si fanno convegni sulle tecniche di affinamento in barrique, e su altri si spiega che gli italiani la vogliono chiara.
Dove sta la verità? Forse da nessuna parte o da entrambe, forse il mercato oggi è entrambe le cose. Milioni di ettolitri di birra chiara e migliaia di ettolitri di tutto il resto. E forse la convivenza è pure possibile...

10 maggio 2011

Tuttofood e il "miglio verde"

Non ero mai stato a Tuttofood, la Fiera dell'Alimentare "per eccellenza" (addirittura!) che termina domani nella fantascientifica nuova fiera di Milano, in quel di Rho-Pero. In compenso quest'anno ho recuperato con presenza nella giornata di domenica e di lunedì. Allora, innanzitutto un avviso ai naviganti metropolitani: per qualche mistero forse comprensibile solo all'organizzazione i quattro padiglioni occupati da Tuttofood si trovano all'estremità opposta alla fermata della Metro con l'eccezionale risultato di doversi sciroppare sotto le lenti "moltiplicacalore" volute da Fuksas i quasi due kilometri di percorso a piedi prima di giungere alla meta. E' vero che il "miglio verde", non a caso romanzo firmato dal maestro dell'incubo Stephen King, è dotato di tapis roulant che dovrebbero accelerare l'esperienza pedatoria, ma evidentemente gli italiani concepiscono il congegno come una sorta di giostrina gratis e quindi, una volta messo piede sul tapis, ci si trova a dover essere ingolfati come dei polli in batteria inviati allo spiumamento. Ricorrendo a tecniche degne del miglior Tomba sono comunque riuscito a slalomare e risalire la corrente ed eccomi così nei padiglioni dove avevo appuntamenti di lavoro.
La ReAle allo stand Interbrau
Passato indenne attraverso le monumentali aree di accoglienza di salumifici e caseifici vari, sono riuscito a mettere piede nell'area chiamata Mixer Village che ospitava, credo per la prima volta, la sezione beverage di Tuttofood. Spazio quindi anche alla birra nelle rappresentanze, almeno quelle che ho visto io, di Menabrea, Birra Forst, Dibevit Import e Interbrau. Quest'ultimo offriva alla spina alcune birre notevoli. Per la prima volta ho provato alla spina la Open Noir di Baladin che mi ha lasciato abbastanza perplesso per i profumi quasi nulli (forse troppo fredda), ma deliziato per il retrogusto netto di liquirizia che mi ha un po' riportato indietro nel tempo, quando ancora si provava piacere a masticare il legnetto fibroso ma saporito (detta così sembra che abbia un centinaio d'anni o suppergiù). Davvero tosta, non nel senso di tostatura, la Urthel Op-9: leggermente aggressiva, ma difficile da dimenticare subito. Solita conferma per la ReAle del Birrificio del Borgo spillata dal cask, morbida e aromatica, l'ho scelta come primo sorso per rimettermi un po' dalla scarpinata. Dietro le spine, nella foto qualcosa si intravede, una frigovetrina immensa con tutto il ben di dio che Interbrau distribuisce in Italia compresi nuovi arrivi da Sierra Nevada (la Glissade ad esempio). Considerata l'impossibilità di svaligiare almeno uno scaffale, mi sono voltato di 180° per indirizzarmi verso lo stand di Dibevit Import dove ho assaggiato ancora una volta la Pelforth Brune, mi piace sempre lo ribadisco, e ho trovato quasi stratosferica la Malheur Dark Brut, 12 gradi alcolici da scalare a cuore sereno.
Lo stand Dibevit con Danijel Lovrecic al lavoro
L'ho trovata perfetta insieme a una pasta cioccolatosa che ho scippato dal bancone, ma sarei curioso di provarla anche su delle carni dal sapore forte. Tipo il cervo che compro in montagna dalle parti di Alleghe. Ancora qualche assaggio random e poi via di tapis roulant fino alla Metro. Nel complesso, convegni dagli orari ballerini a parte, lo spazio Mixer Village mi è piaciuto abbastanza. Poca gente, birre buone, clima rilassato. Quanto all'utilità concreta per le aziende, giudizio sospeso. Voci contrastanti e beneficio della prima volta non mi permettono di tirare delle conclusioni. Credo che sia stata un'occasione per incontrare clienti già fatti e, in misura minore, intercettarne di nuovi. Ma Tuttofood è ancora molto alimentare come fiera, pertanto le potenzialità Horeca di Milano e dintorni non credo si siano espresse al loro meglio. Va detto che dopo il catastrofico esperimento di MiWine di qualche anno fa, FieraMilano potrebbe voler andare con i piedi di piombo nel segmento beverage. Più probabile che, senza tanti proclami inutili, si punti a fare le scarpe a Cibus Parma. Dopo aver tentato, invano, di farle a Vinitaly.