29 maggio 2012

A tu per tu con l'uomo Mikkeller

Mikkel Borg Bjergsø
Di solito le interviste sono il metodo migliore per penetrare dentro la cortina che ognuno di noi possiede, o eregge, per difendersi dagli altri. Ho studiato per anni il modo migliore per farle. Una buona intervista necessita innanzitutto di sintonia con l'intervistato, una lenta tattica per invitarlo a "sbottonarsi", a uscire dalle dichiarazioni "a mezzo stampa" per rivelare qualcosa di sé. Nella mia "carriera" ho incontrato un po' di tutto, da chi in due secondi era pronto a raccontarti qualsiasi cosa a chi tentava in tutti i modi per farsi accreditare come un genio assoluto. Da chi, falsamente, cercava di mantenere un low profile a chi lo aveva davvero. Mai un'intervista è stata però così difficile come quella ottenuta da Mikkel Borg Bjergsø, l'uomo che sta dietro il progetto Mikkeller, sicuramente uno dei più rivoluzionari e, comunque la si pensi, interessanti fenomeni dentro il mondo della birra artigianale.
E invece, seduti su un divanetto di fronte a lui e in compagnia di solo un altro collega, il nostro ha mantenuto per tutto il tempo un atteggiamento distante. Io mi aspettavo un qualcosa in stile Teo Musso in salsa scandinava, lo sguardo acceso, le parole a rotta di collo, la visione messianica, insomma... fuoco e fiamme.
E invece Mikkel Borg Bjergsø ha un aplomb invidiabile. Certo, magari il fatto di averci fatto una chiacchierata a un'ora dall'apertura cancelli del suo primo Copenhagen Beer Celebration può giustificare il fatto che avesse altri pensieri in testa. Poi mettiamoci pure il carattere ma, onestamente, il creatore e guida spirituale del progetto Mikkeller appare come una persona molto seria. Che abbia carattere non ci piove visto che l'idea di organizzare una sorta di "controfestival" nelle stesse giornate del Copenhagen Beer Festival non può non avere delle motivazioni serie. E per serie intendo dire "politiche"... Ovvero non mescolarsi alla presenza di Carlsberg nel Beer Festival. Ma, questa, è solo una mia supposizione perché a domanda specifica, il nostro uomo ha glissato...
Ma ecco qui la breve intervista con Mikkel Borg Bjergsø...
D. La Copenhagen Beer Celebration coincide perfettamente con il Copenhagen Beer Festival...
R. Sì, nella stessa settimana a Copenhagen si tiene un altro festival, molto più grande del nostro. Ci siamo stati anche noi gli anni scorsi, ma abbiamo ritenuto che non ci fossero degli sviluppi interessanti, che l'evento si ripetesse sempre uguale. Sempre le stesse cose... Abbiamo deciso di farcene uno nostro, focalizzato maggiormente sul rapporto tra birra e cibo che credo sia la grande sfida del prossimo futuro per noi produttori... Oggi nei ristoranti il vino è ancora la scelta dominante... ma le birre si possono abbinare benissimo con il cibo... Qui abbiamo creato un rapporto con un bravo chef danese che prepara la cena per tutti i partecipanti alla Celebration, inclusa nel prezzo del biglietto, con una birra in abbinamento...
D. Questo festival ha comunque una caratteristica particolare: i biglietti in vendita non erano più di mille al giorno...
R. E li abbiamo venduti tutti in poche ore. In realtà il nostro scopo non era quello di fare un vero e proprio festival, ma più che altro una grande party e, naturalmente, il fatto di servire la cena comportava un numero "chiuso". Volevamo anche che il pubblico potesse incontrare davvero i birrai presenti, il tutto in un'atmosfera più tranquilla rispetto a quella dei festival tradizionali, ma anche di festa con i birrai...
D. Tutti i birrai sono presenti?
R. Non tutti, ma la stragrande maggioranza sì. Chi non era presente ha preso parte a una specie di stand "collettivo"...
D. Come giustifica la rivoluzione artigianalbirraria danese?
R. Beh, tradizionalmente le birre artigianali arrivavano dall'Europa, dal Belgio, dalla Germania e dal Regno Unito. Poi c'è stata l'esplosione del fenomeno americano e infine l'onda è arrivata anche da noi. Perché? Perché si è manifestato il desiderio di fare birre diverse rispetto a quelle che si bevevano normalmente. La Danimarca è una piccola nazione con uno dei più grandi produttori di birra del mondo. Logico quindi che il mercato fosse molto dominato da Carlsberg. Qualcuno si è stancato e la gente era pronta a un cambiamento... Nel 1997 avevamo circa 9 birrerie in Danimarca, oggi ce ne sono circa 130... Ma il fenomeno non riguarda solo noi, è dilagato anche nel Regno Unito, in Italia, in Spagna, in Brasile, persino in Francia e in Belgio. Forse solo la Germania al momento è ferma....
D. Lei però è una figura strana nel movimento internazionale. Fa la birra senza avere un impianto....
R. Io ho iniziato a fare la birra in casa nel 2003 e nel 2005 ho pensato che avrei voluto dimostrare agli altri cosa sapevo fare. Mi rendevo conto che quello che facevo in cucina era meglio di quello che bevevo in giro. Anche le nuove birrerie tendevano a fare cose abbastanza normali, ma era ovvio. Se hai un impianto e tutta un'organizzazione hai dei costi che devi sopportare e avere questi costi ti costringe a dover fare delle scelte che non erano solo le tue, ma quelle dettate dalle esigenze commerciali. Sì, le etichette erano più accattivanti, le birre un po' più buone, ma niente di davvero originale. Noi non volevamo avere un'attività commerciale, volevamo far vedere cosa eravamo in grado di fare con la birra...
D. E così siete partiti solo con la ricetta in mano...
R. Esatto, e noleggiando un impianto per un giorno o per una settimana, poi anche per un mese quando le cose hanno iniziato a funzionare. Solo un anno dopo ero in giro per il mondo a cercare collaborazioni di prestigio. Credo che la prima sia stata con l'americana Three Floyds, per me la birreria numero uno al mondo. E così andiamo avanti, facendo le nostre ricette e collaborando con quelli che consideriamo i migliori birrai nel campo internazionale...
D. Ma all'inizio non avere l'impianto poteva anche essere una necessità, oggi è sicuramente una scelta...
R. Sì, oggi è una scelta. La scelta di essere liberi di fare quello che si vuole. Se domani la gente smettesse di comprare la mia birra, io posso chiudere senza troppi problemi. Al momento, fortunatamente, non abbiamo problemi a venderla...
D. Ultima domanda: ha idea di quante etichette Mikkeller ci siano in giro attualmente?
R. (sorride per la prima volta) Tante di sicuro. L'anno scorso ne abbiamo fatte oltre 110, oggi abbiamo più di 200 etichette diverse. Forse 220. Ma questa è la cosa interessante ed eccitante allo stesso tempo. E sono i numeri della mia libertà di espressione...

28 maggio 2012

Pub crawling in Copenhagen...

Copenhagen Brewpub
I lati positivi del mio lavoro sono molteplici. Mi guadagno da vivere scrivendo. E già questo è, per me, una cosa fantastica. Scrivo delle mie passioni, in primis la birra, ed è anche meglio. Infine viaggio per lavoro. Superlativo. Non che non ci siano dei lati negativi nella mia professione, anzi sono talmente tanti che, da un lato, sconsiglierei di seguire le mie orme, dall'altro fare la lista mi deprimerebbe troppo. Ma oggi mi sento positivo, quindi bando alle lamentele e ricordiamo la recente spedizione in terra danese dove ho avuto la fortuna di seguire due festival birrari di livello eccellente e fare qualche visita lampo in alcuni locali di Copenhagen.
I tempi, durante questo tipo di viaggi, sono sempre ristretti. Si cammina molto, si fa quasi irruzione nel pub prescelto, si bevono un paio di birre tanto per farsi un'idea e si prosegue verso la tappa successiva. Insomma, un vero e proprio pub crawling senza indugi e, elemento negativo, senza troppi approfondimenti. Devo confessare comunque che tutte le mie più rosee aspettative su Copenhagen sono state rispettate. La città nasconde un sacco di "fermate" birrose di alto livello. La prima uscita è stata quindi destinata al Copenhagen Brewpub. La scelta è stata determinata da mere questioni di vicinanza visto che la prima sera eravamo un po' cotti dalla levataccia mattutina e dal lavoro dei giorni precedenti. Il posto è comunque suggestivo, ha un bel cortile interno, l'impianto a vista sulla sinistra e una scaletta che porta nell'interrato dove si trova il vero e proprio locale. Area pub con servizio di cucina veloce (hamburger e cose così) e sala ristorante dove si cena a un livello insolitamente alto per una birreria o brewpub. Le carni, come vuole la fama danese, sono eccellenti, i dessert favolosi. In accompagnamento ho provato un po' di tutto vista la possibilità di fare piccoli assaggi (samples): risultato qualità più che buona su tutto con vertice assoluto per la Cole Porter, birra con la quale avrei potuto fare tutta la serata.
L'ingresso della Norrebro
Meno bene invece sul fronte Norrebro Bryghus sulla quale avevo riposto ampie speranze. Il locale è carino, interrato come il precedente (ma scoprirò più tardi che questa sembra essere una pratica molto diffusa tra i locali cittadini) e sicuramente molto noto. Impianto a vista, possibilità di prenotare beer tasting (cosa che forse avremmo dovuto fare anche noi) e pure di acquisto take away. Tuttavia le due pinte al nostro tavolo, una di New York Lager e l'altra di Bombay Pale Ale, ci sono sembrate anonime e un po' prive di personalità. Il giudizio definitivo è comunque sospeso: al Copenhagen Beer Festival, l'ottimo Laurent Mousson, nostra guida e vate in materia di birre danesi, ci ha detto che le produzioni Norrebro sono due e la migliore non è davvero quella del brewpub.
Ol Baren
Comunque ripartenza e a caccia dell'Ol Baren (alcune O dovrebbero essere scritte "alla danese", ma non trovo da nessuna parte il modo per farlo... sigh!). Dell'Ol Baren ci aveva parlato bene Alessio Leone, globe trotter della birra con i giusti agganci "familiari" a Copenhagen. Trovare il posto non è stato comunque facile. Sono un convinto sostenitore dell'understatement, ma un locale così dimesso non mi era ancora capitato... La porta in legno è sormontata da una piccola insegna al neon che recita "Ol" (che significa birra). A fatica si capisce che dietro la porta e le vetrate c'è dentro qualcuno che beve. Entriamo e scopriamo che il posto è piccolo, quasi un ritrovo per carbonari. Qualche tavolino, il bancone non certo immenso e una signorina alle spine che, quando non deve spillare, si diletta con ferri e maglia. Niente di male in tutto questo, anzi, solo che sembra di essere finiti dentro una distorsione temporale ed esserne usciti in un qualche pub sperduto nelle isole Shetland, anno di grazia attorno al 1930. Quando però riesco a mettere a fuoco le birre scritte sulla lavagnetta scopro che, oltre a qualcosa di abbastanza comune tipo Pilsner Urquell e Paulaner, ci sono due proposte firmate Beer Here, craft brewery di cui avevo sentito parlare bene in Italia. Mi fiondo quindi deciso su Hopfix e Hoptilicus e, se non è amore vero, è una passionaccia di quelle di cui serbi un lungo ricordo. Davvero delle grandi birre, da bere con disinvoltura e soddisfazione anche se, come è capitato a noi, te le servono nei bicchieri firmati Stronzo, nome di un'altra birreria danese (e che forse dovrebbe assumere un esperto di relazioni internazionali o almeno un nerd che sa fare delle ricerchine su Internet) che all'inizio pensavo che la ragazza "del maglione" ce l'avesse con me.
Applaudendo dunque all'Ol Baren e pure al lavoro di maglia della ragazza (un primo segno che la "ribellione craft" si sta imborghesendo?) e alzando un dito virtuale agli amici della Stronzo, decidiamo di accogliere un altro suggerimento italiano e ci diamo da fare per trovare il Plan B. Mappa di Copenhagen in mano, navigatore GPS installato su Iphone e tasso alcolico sotto controllo, passiamo per ben due volte nell'inpronunciabile Frederiksborggade (avete idea di cosa significa chiedere indicazioni stradali a Copenhagen?), per poi trovarci impietriti davanti al civico 48 a contemplare due vetrine talmente sporche che quasi nascondono un antro vuoto e squallido. Il Plan B è defunto, non sappiamo se per risorgere "alla nazarena" o per scomparire tra i flutti dei ricordi come l'Andrea Doria, ma al momento è out.
Mikkeller Bar
Quindi? Quindi abbiamo perso del dannato tempo, prezioso per vedere altro. Poco male, rapida tappa di decompressione all'Apollo Bryggeriet che sta all'ingresso dei giardini di Tivoli, utile se non altro a capire che puoi fare delle birre decenti anche senza essere famoso, avere atteggiamenti pseudo rivoluzionari o strizzare l'occhio solo ai talebani della birra artigianale, e infine touchdown al Mikkeller Bar. Ecco, il Mikkeller... Di questo "supereroe" della "nuova birra", di questo danese ormai più famoso di Amleto, delle sue birre da vertigini, avevamo sentito parlare fino a farci sanguinare le orecchie. Ogni tanto ci eravamo imbattuti in qualche sua creazione con impressioni a dir poco inquietanti. La Mikkeller 1000 Ibu provata al Craft Beer Co. di Londra ci era sembrata ad esempio una pugnalata ai nostri sensi, a partire dalle gengive per finire con il retrogusto. Ma come si fa ad andare per la prima volta a Copenhagen  e non fare un salto al Mikkeller Bar? La sirenetta passi pure, ma questo locale giammai. E infatti ci andiamo, anche con un collega dell'Irish Times che non gli pare vero di bere qualcosa di diverso da una stout. Il posto è maledettamente piccolo e maledettamente pieno, segno evidente che la fama ha ormai valicato i confini dei beer hunter "so-tutto-io" per conquistare i giovani gaudenti della capitale. Arredamento in stile minimalista Ikea, un po' deprimente a dirla tutta, piano interrato come si conviene e lavagna con tanti numerini per indicare la birra se la pronuncia danese non è il vostro forte. Ho deciso di andare in contropiede e invece di mettermi alla prova con varie amenità tipo le Geek Breakfast mi sono preso una Mikkeller Super Galena Ipa... Poi una "banale" American Dream Lager e.... incredibile, erano buonissime! Quindi, mi sono detto, Mikkeller non è solo un fuoco fatuo di provocazioni e "visioni", il tutto condito da una certa filosofia politica da guerrigliero zapatista. Quelle due birre erano fantastiche: aromatiche e luppolose, con un bellissimo taglio secco finale che faceva cantare le mie papille con "ancora, ancora....". Il mio cervello ha comunque mantenuto il suo consueto aplomb da ufficiale inglese in India (si fa per dire) e la scelta successiva è stata indirizzata sulla Zombie Dust dell'americana Three Floyds. Dentro di me pensavo, se sei in Danimarca devi bere danese, ma la curiosità ha preso il sopravvento. Birra strepitosa, che qualcuno la importi immediatamente (sono disponibile a investirci tutto il mio peso giornalistico... e pure quello fisico che è nettamente superiore!) o che qualcuno mi dica dove la si trova in Italia (Roma?). Sono disposto anche a prendere a pedate il posteriore del Freccia Rossa in qualsiasi momento pur di berla nuovamente... Altrimenti mi tocca andare a Chicago oppure, ovviamente, al Mikkeller Bar di Copenhagen...

6 maggio 2012

Teo vs Ago: l'intervista doppia...

Tempo di sperimentazioni qui a Birragenda. L'idea dell'intervista doppia ci scompifferava, a dire il vero, da un po' di tempo ma era sempre mancata l'occasione e, soprattutto, immaginavo che la cosa potesse funzionare bene solo in televisione (Le Iene docet). Tuttavia l'occasione della cotta insieme tra Teo Musso e Agostino Arioli mi sembrava troppo ghiotta per non provarci e allora eccola qui. La regola era che le domande fossero le stesse, i protagonisti sono stati intervistati separatamente.
Buona lettura...
Agostino Arioli
- Perché una birra insieme?
Ago: Perché Teo mi ha invitato (risposta concisa e lunga pausa, ndr.). Certo che c'è il gusto del confronto. Io non avevo pensato a una cosa del genere. Ci ha pensato lui e io sono stato contento di aver accettato l'invito. Sacrificando un impegno che avevo che a sua volta mi aveva costretto a sacrificare l'invito alla World Beer Cup di San Diego. Ma è stato un sacrificio che ho fatto volentieri: innanzitutto perché tutte le collaborazioni tra birrai sono delle occasioni di crescita, di scambio e di piacere. Poi Teo è sempre stato un amico per me, soprattutto agli inizi, ma lo è sempre rimasto... Ritrovare un amico e fare insieme a lui quello che ci piace maggiormente è quindi sempre un piacere per me...
Teo: Per me l'idea era quella di mettere insieme 30 anni di birra artigianale italiana (16 di Ago e 16 di Teo, ndr.). Far incontrare due storie, due filosofie, due pensieri diversi dopo tanti anni sarebbe stata una bella cosa. Dall'idea di fare una birra insieme siamo passati all'idea di fondere due filosofie in un unico prodotto. Bellissimo, molto stimolante ma anche molto difficile. Infine, questo nostro incontro è anche un modo per rispondere giocosamente al mondo degli appassionati che, in qualche modo, ha supposto una rivalità tra me e Ago, quando invece è tutto il contrario... Rivali proprio non lo siamo mai stati... Per giocare al massimo avrei voluto creare qui in birrificio una sorta di "ring" dove all'angolo di Ago ci stava la Tipopils e al mio la Super Baladin. Ci è mancato il tempo....
- Cosa invidi dell'altro?
Ago: La cosa che invidio di più a Teo è la sua energia, il fatto che è perennemente in movimento. Ma la parola "invidia" è oggi poco attuale per me. Ci sono stati dei momenti in cui invidiavo davvero la sua capacità di fare tante cose, il suo essere sempre così brillante. Ora più che altro ammiro la sua energia, ne sono incantato. Non si ferma mai, è sempre in movimento e tutte le idee che gli vengono in mente riesce a portarle avanti. Cazzo, un'energia incredibile. Questo aspetto lo ammiro molto...
Teo Musso
Teo: Guarda, penso di dire l'opposto di quello che ti ha detto lui (ride, ndr.). Io gli invidio il fatto di riuscire a stare fermo su una stessa cosa. Io so che non potrei mai essere come lui, ma ci sono dei momenti che gli invidio proprio questo suo lato del carattere, la sua solidità. Io ho un bisogno continuo di esplorare, muovermi...
- Una birra che ruberesti a Teo/Ago...
Ago: (lunghissima pausa, ndr.l). Guarda, rispondo solo per dovere d'intervistato. Perché, la cosa bella che c'è tra me e Teo è che facciamo birre molto diverse, ma anche molto complementari. Una linea di birre che comprendesse le mie e le sue sarebbe, non dico completa, ma straordinariamente interessante e variegata. Comunque ritengo che la birra più geniale di Teo sia la Xyauyù. Non è forse una birra che bevo spesso, ma quando me ne faccio un mezzo bicchiere godo...
Teo: Bah, ruberei naturalmente la sua birra simbolo, la Tipopils. Perché è in realtà una grande birra, sotto tutti gli aspetti. E' una grande pils, ma anche per il suo modo di comunicarla, la serietà nel comunicarla. Indubbiamente una grande birra...
- Dove sarai tra dieci anni?
Ago: Prima di tutto vorrei essere ancora sulla faccia della terra, con la mia compagna e mio figlio in Indonesia, però immagino che tu me lo chieda dal punto di vista professionale (ride, ndr.), e quindi ti dico che non c'è il minimo dubbio che vorrei essere ancora a fare birra. negli anni passati ho avuto dei momenti di dubbio ma oggi mi dichiaro felicemente birraio. Sono rilassato, non devo dimostrare niente a nessuno, lavoro il giusto. Fare birra è fantastico, ma vorrei migliorare sempre la mia produzione e realizzare qualche progetto che ho in cantiere. Sai, le mie birre richiedono degli anni per arrivare a maturità... Ah, e vorrei sempre riuscire a mantenere intatto il legame che ho con i consumatori...
Teo: Tra dieci anni non ne ho la più pallida idea (ride di nuovo, ndr.). No, in realtà, vorrei continuare a ricercare nuovi percorsi del gusto riuscendo però a mantenere questo dimensionamento. Di sicuro tra dieci anni avrò la cantina d'invecchiamento per le birre più figa del mondo! Ci sarà la possibilità di assaggiare Xyauyù di dieci anni di invecchiamento, posso immaginare già l'evoluzione, ma forse no, Forse i risultati saranno oltre l'immaginazione....

4 maggio 2012

The rumble in the jungle

Ago vs Teo: la foto simbolo (Ph. F. Mozzone)
La giornata del 30 aprile io l'ho vissuta come un vero e proprio evento. Come credo di aver scritto da qualche parte, non mi ricordo nemmeno più dove, la notizia dell'incontro-scontro tra Teo Musso e Agostino Arioli per fare una birra insieme mi era apparsa quasi poco credibile. Vero, i due si possono considerare, volenti o nolenti, i "padri nobili" della rivoluzione artigianal-birraria tricolore. Padri nobili ma anche padri diversi, per filosofia produttiva e filosofia commerciale. Diversi pure dal punto di vista caratteriale, comunicativo, di pura e semplice immagine. Anni fa li definivo "due occhi della stessa testa" ma pensavo agli occhi di David Bowie (che dovrebbero essere di colore differente, ma sembra sia una leggenda metropolitana). Comunque sia, questa loro reunion mi suonava come una jam session tra i Beatles e i Rolling Stones e la mia attesa saliva proporzionalmente all'avvicinarsi della data fatidica.
Il 30 aprile le colline attorno a Piozzo sono state sferzate da una pioggia insistente, costringendo il team del Baladin ad attrezzarsi per gestire tutta la giornata all'interno. Nessun problema. Era almeno un annetto che non bazzicavo da quelle parti e il birrificio l'ho visto trasformato: il capannone è stato dipinto a pié sospinto da Marco Bailone, l'artista che segue Teo da anni, trasformando una grigia sede produttiva in un colorato ambiente dove si lavora ma dove il pubblico si può trovare a proprio agio. Sala spedizioni, sala rifermentazioni, sala imbottigliamento (molto moderna e "aggressiva"), le botti per gli esperimenti e quella per il distillato di birra e infine il cuore pulsante con fermentatori da 130 ettolitri e tutto il resto. Difficile non restare impressionati pensando alla prima volta che ho conosciuto Teo almeno un decennio fa. Difficile anche stare dietro alla sua parlantina, a quel linguaggio che usa e che, con le parole, riesce sempre a disegnare una visione, un progetto nel quale, inevitabilmente, ti trascina. Agostino, da parte sua, sembra possedere maggiore concretezza, è didattico nei suoi ragionamenti e ti rendi conto che ogni frase che dice è stata meditata e ha un fondamento logico. Teo è l'elastico, Ago la fionda, Teo il politico, Ago il tecnico. Ma le metafore terminano qui. Che siano entrambi due dannatamente bravi birrai non ci piove e siamo d'accordo con Agostino quando ci fa pensare che le gamme del Birrificio Italiano e quelle del Baladin si potrebbero integrare quasi alla perfezione. Di sicuro, sarebbe una batteria fenomenale...
Agostino Arioli e Teo Musso
Ma parliamo dunque della birra in comune. Dire "in comune" forse non è del tutto esatto. Il progetto è un parto delle due menti, certo, ma la scelta sembra essere ricaduta più sulla strategia napoleonica del "marciare divisi per colpire uniti" piuttosto che su una classica collaboration brew. La birra finale, che ricadrà nello stile Imperial Russian Stout, sarà infatti figlia di un blend a sua volta figlio di due birre sviluppate singolarmente da Ago e Teo. Birre che potranno stare in piedi per conto loro e delle quali sono una parte confluirà nel blend Ago+Teo finale.
Insomma, i due protagonisti si sono spartiti i compiti con Agostino a disegnare la sua birra giocando forte sul fronte dei luppoli ("sopra le righe", per usare le sue parole), ma ricorrendo anche a un apporto interessante come l'uso di lamponi ("solo delle note"). Teo invece si è divertito con malti e lievito. L'assemblaggio, infine, è stato posto a maturare in botte, quasi 1500 litri, e in un'anfora da 150 litri.
Che birra salterà fuori? Boh è la mia risposta, sebbene la curiosità sia notevole sia per i "giocatori" in campo ma anche per il meccanismo produttivo complesso. Con quella dell'anfora che sembra proprio essere il nuovo trip dei birrai artigiani dopo le esperienze Cantillon e quelle di Leonardo Di Vincenzo.
Se il futuro di questa cotta straordinaria è nelle mani di Cerere, a me è rimasta la gioia di vedere due punti di riferimento assoluti della scena birraria italiana fianco a fianco, belli sorridenti, diversi sì, ma anche simili per molti versi. Nei prossimi giorni potrete leggere una specie d'intervista doppia ai due ma chiudo qui questo post per spiegare lo strano titolo che gli ho dato. Quando ho infatti chiesto che nome avrebbero dato alla birra (il blend intendo) non ho avuto risposte certe. Ci penseranno, ma a me è venuto subito in mente. "Rumble in the jungle" come il leggendario incontro di boxe tra Muhammad Ali e George Foreman tenutosi a Kinshasa nel 1974, incontro tra due grandi campioni, diversi per stile e carattere proprio come Teo e Ago, immortalati poi nel documentario When we were kings. Non so voi cosa ne pensate, ma a me piace un sacco...