25 giugno 2007

Coffee Break


No, non si tratta della milk stout di Agostino Arioli. Birraio stimato e serio in un mondo che rischia, speriamo di no però, di diventare tutto lustrini prima del tempo (ma sull'argomento ritornerò a breve). Milk stout comunque che a me piaceva assai ma che credo abbandonata al suo destino da Ago (d'altro canto a uno che fa la Extra Hop si perdona questo e altro). Parliamo invece di caffè. Almeno proviamoci perché sull'argomento confesso di sentirmi un po' Socrate (il filosofo, non il calciatore barbuto) ovvero so di non sapere.
Sono reduce da un incontro organizzato da sempre-in-movimento Carlo Odello, del Centro Studi Assaggiatori, all'Iper Portello. Tema, appunto, il caffè. Sovraestrazione, tostature, lavato o meno, origine, arabica o robusta, colore della crema e sua "tessitura". Ecco che, dietro quello che reputavo un gesto tra i più automatici della giornata tipo, si apre un mondo. Il mio primo incontro professionale con il caffè è stato quando, anni orsono, ho scritto i testi per un sito aziendale (la Diemme Caffè di Padova). Al primo appuntamento ho rischiato la defenestrazione semplicemente perché alla domanda: "vuole un caffè?", io ho risposto con un cordiale "grazie, macchiato". Prima lezione appresa: il vero caffè si beve normale o ristretto, senza latte e possibilmente senza zucchero per non alterarne l'aroma. Qualsiasi altro intruglio andrà bene per il marketing ma è roba da signorina.
Lezione breve e non pedante dunque quella dell'Iper. Anche nel caffè le origini hanno un valore: il giamaicano è diverso dall'etiope, il brasiliano dal guatemalteco. Lino's Coffee Shop ha fatto la sua fortuna su queste, e altre, distinzioni. Oggi sembra che anche altre aziende ci stiano arrivando. E, a ruota, arriveranno i degustatori di caffè, i giornalisti specializzati in caffè, i master of food sul caffè e magari anche una bella fiera o salone a tema... Nel frattempo, io ora scruto con attenzione la mia tazzina, controllo se la crema vira al nocciola e se la sua consistenza-tessitura è lenta a sparire, capto i profumi di tostatura, ne giudico la complessità e la persistenza... Sto perdendo l'abitudine di ingollare il caffè e dimenticarmelo subito dopo e mi sembra una buona cosa. Attendo solo con ansia una lezione sulle sigarette. Con questa tecniche di degustazione sono sicuro che risparmierei una bella cifra all'anno...

22 giugno 2007

Cucina d'autore... alla birra



Articolo pubblicato su BarBusiness di maggio. Ma il posto e i due "pards" che lo guidano, Marco e Salvatore, sono un punto di riferimento per tutti coloro che hanno a che fare con la birra. Per questo motivo, senza indugio ulteriore visto che il pezzo è lunghetto assai, ecco quello che penso della Ratera.
Da BarBusiness, maggio 2007
Una sfida coraggiosa, una pazzia vera, un’intuizione geniale. Forse La Ratera di Milano è tutte e tre le cose messe insieme. Certo che, in un Paese che ha decine di cucine regionali diverse, popolato da un nugolo di chef innovativi e da un numero superiore di quelli “della tradizione”, pianificare razionalmente una cucina interamente dedicata alla birra, ovvero a una bevanda di cui pochi compatrioti ancora conoscono le meraviglie, potrebbe essere letteralmente da camicia di forza. Invece quella portata da Salvatore Garofalo ha le maniche slegate, con braccia e mani che si muovono rapide a fare listarelle di verdure, sfilettare un dentice, impastare il pane, soffriggere e via di questo passo… Salvatore ha 38 anni e un curriculum di tutto rispetto: scuola alberghiera ed esordio ai fornelli a 17 anni, esperienze a Milano da Pietro Leemann e da Sergio Mei, poi a Erbusco da Gualtiero Marchesi e a Cassinetta di Lugagnano da Ezio Santin. «Tutte esperienze preziose», commenta adesso, «che mi hanno arricchito moltissimo, culturalmente e tecnicamente. Devo molto soprattutto a Leemann che mi ha insegnato il giusto approccio verso la cucina e alla filosofia che ci sta dietro; mi ha fatto capire che non ci si deve mai sentire soddisfatti e che ogni piatto è perfezionabile. E poi a Ezio Santin, da lui ho capito che cosa vuol dire semplicità e l’importanza della ricerca della materia prima, non fine a se stessa, ma come mezzo per arrivare all’essenza del sapore». Fantastico, verrebbe da commentare, ma cosa ci fa un personaggio del genere tra bottiglie di lambic del Payottenland, belghe d’abbazia, rauchbier tedesche e birre artigianali italiane? «Perché in Italia, a certi livelli è praticamente un territorio inesplorato», risponde con entusiasmo, «e c’è quindi il gusto di essere dei pionieri. Poi la differenza, in cucina, con il vino è abissale: la birra conferisce una maggiore personalità al piatto e lo spettro degli aromi è molto più ampio e diversificato rispetto al vino». E su questo non ci sono dubbi, in effetti, considerato che tra l’acidità aromatica di un lambic a fermentazione spontanea e una stout realizzata con fave di cacao ci sono decine se non centinaia di birre dai profumi e sapori diversi: birre al miele e birre affumicate, birre aromatizzate per infusione con foglie di tabacco toscano e birre maturate in legno, birre di frumento e birre al farro o al grano saraceno. Insomma, una ruota dei sapori talmente ampia che si potrebbe andare avanti dei mesi senza ripetere lo stesso piatto o lo stesso gusto. «Infine», riprende Garofalo, «ammetto anche che della birra mi piace l’approccio più informale da parte della clientela, nel vino c’è un po’ troppo snobismo». Si commetterebbe un errore però se si pensasse che Salvatore Garofalo sia un integralista. La Ratera non è un covo di “pasdaran” della birra, più semplicemente è una curiosità gastronomica che bisognerebbe togliersi almeno una volta nella vita. «Poi io non voglio banalizzare la cucina alla birra, non mi interessa semplicemente dimostrare che ogni piatto che proponiamo vede la birra tra gli ingredienti, anche se è vero che abbiamo avuto interi menu con la birra. Ma ogni piatto è studiato e provato e, spesso, prima di vedere la luce, certe ricette si affinano per settimane, fino al risultato voluto o che a noi sembra ideale». La ricchezza aromatica della birra, a volte, può anche essere una bella difficoltà, la nota amara che ne caratterizza una bella percentuale non è semplice da “addomesticare”. «È difficile dire che cucina faccio», continua Garofalo. «Faccio una cucina contemporanea, dove la ricerca della materia prima conta davvero tantissimo, dove la stagionalità dei prodotti è fondamentale. So bene che quest’ultima cosa è un fattore mentale più che tecnico, perché oggi si può avere tutto rapidamente e nelle massime condizioni di freschezza da tutto il mondo, ma per me è così. Io faccio la spesa e preferisco scegliere alimenti, ma anche oli o aceti, che siano biologici. Il pane lo facciamo in casa e il menu cambia anche ogni giorno. Il che vuol dire che preferisco avere una carta più limitata ma sempre diversa piuttosto che riproporre piatti che magari hanno già avuto un buon successo». Siamo, par di capire, ancora nella fase dello stimolo, se non della provocazione, perché comunque una cucina creativa, moderna e italiana, che prendesse così a cuore le potenzialità della birra ancora non l’avevamo vista dalle nostre parti. E quindi, par sempre di capire, la clientela va incuriosita, “educata”, conquistata… Pur odiando gli elenchi, pensiamo che qualche piatto possa incuriosire anche così, nero su bianco. Eccolo dunque servito: insalata alla Rosé de Gambrinus, Stilton, crostini di pane all’aglio e acciughe; corzetti liguri alla Westmalle Dubbel con pesto di noci, pinoli e maggiorana; filetto di maiale all’Aventinus con salsa di mandorle e pepe di Sechuan. Tra i dolci, la cassata alla Isaac e il cilindro dolce alla Montagnarde. Anni luce di lontananza da quella che si potrebbe presumere, a patto ovviamente di non conoscere La Ratera e Salvatore, sia la cucina alla birra ovvero manzo alla stout e carbonade flamande. Il suo gazpacho di pomodori verdi alla fiabesca Orval, birra trappista leggendaria anche per l’aneddoto che la lega a Matilde di Canossa e un anello d’oro ripescato da una trota “salterina”, con calamari ripieni di panzanella di pane integrale e burrata è invece un piatto estivo delicato e di immediata freschezza, di moderna tonalità cromatica, il verde quasi psichedelico dei pomodori, e perfetto equilibrio di sapori.
Se Garofalo è comunque il deus ex machina della via italiana alla cucina alla birra, Marco Rinaldi, l’uomo che ha creato La Ratera, ne è certamente il mentore più appassionato. Spillatore perfezionista e un po’ maniacale, ma nel senso buono del termine, ha scommesso sulle birre artigianali di qualità in tempi non sospetti e anche le sue scelte all’estero rivelano gusto e olfatto scrupolosi. Ha lavorato insomma su basi già molto buone, basti pensare che chi non sa spillare o conservare adeguatamente una birra può farle gli stessi danni di un sommelier che conservasse del Barolo vicino a un termosifone, ma il “tarlo” di un’alta cucina alla birra gli rodeva dentro da un bel po’. «Forse l’idea della Ratera così come è oggi», spiega, «l’ho sempre avuta in testa. Ma mai come in questi anni, alle migliori birre straniere, si sono affiancate numerose ed eccellenti produzioni italiane, il che ha creato le condizioni ideali per sperimentare una cucina di alto livello che fosse innovativa ma, allo stesso tempo, vera e concreta». Il suo locale è suddiviso su due piani, a piano terra c’è il banco di spillatura e qualche tavolino per chi non vuole cenare ma non sa rinunciare a una birra ben spillata, sopra invece la sala ospita appena trenta coperti in un ambiente dalle tonalità calde e rilassanti. Il lunedì sera è il giorno ideale se ci si vuole concentrare al massimo sulle creazioni di Salvatore, mentre gli amanti del jazz, altra passione di Rinaldi, devono solo consultare il programma o fare una telefonata. In estate si sfrutta anche il dehor esterno, ambita soluzione “di riserva” per chi ancora si ostina a fumare.
È così dunque che, a due passi dal parco di Trenno, è sorto un laboratorio, è il nostro sincero augurio, di sicuro avvenire. Certo, tutti i pionieri pagano lo scotto di non avere nessuno da seguire e la conversione degli avventori di una birreria a un ristorante alla birra, la distinzione è più di notevole di quello che si potrebbe pensare, non è sempre facile o priva di intoppi. Di lavoro, soprattutto sulla comunicazione e sulla selezione della clientela, ce n’è ancora da fare; ma è un discorso di priorità: contano di più le materie prime o una pubblicità azzeccata? Saremo di vecchio stampo ma, visto che al ristorante ci andiamo per mangiare più che per contemplare gli altri commensali o i quadri alle pareti, noi votiamo in scioltezza le materie prime. E con la stessa disinvoltura, votiamo Salvatore e Marco.
Maurizio Maestrelli

21 giugno 2007

Nostalgia Canaglia


Il Manifesto non è mai stato la mia lettura preferita, ma devo ammettere che, in quanto a titoli, è spesso geniale (vedi l'esempio qui a lato). Ho appena terminato di leggere 1977, libricino di Lucia Annunziata su un anno importante per l'Italia e non certo per il fatto che si era nel mio decimo anno di vita. Gli anni di piombo non posso dire di averli vissuti in maniera estremamente consapevole. Ricordo vagamente i telegiornali che sembravano talmente un bollettino di guerra da risultare, per un bambino di dieci anni, un po' noiosi, ricordo il clima pesante in classe quando ci fu spiegato che era stato rapito Aldo Moro, ma ricordo anche il gol di Bettega al Mondiale in Argentina. Insomma, niente esperienze drammatiche anche perché, in quinta elementare, non ci si prendeva a sprangate e risultava difficile fare molotov con le bottigliette dei succhi di frutta. Così ho letto avidamente e agilmente il libretto (rosso?) dell'Annunziata: che bei tempi, che bei ricordi... E le occupazioni, e il "dagli al fascista", e il "buttiamo fuori Lama dall'università", e le manifestazioni rompivetrina e brucialamacchina... Tutto addobbato del "come eravamo": belli, sani, desiderosi di cambiare il mondo.... E poi: Cossiga ancora scritto con la K e le due esse come il famigerato corpo d'assalto tedesco, la borghesia stupida, il Pci vecchio e stupido.... Bah, io sono uno stupido figlio degli anni Ottanta, la triste generazione purtroppo dei Drive In e dei paninari, ma ho sottolineato poche cose nel libro. Uno: La rivoluzionaria Annunziata è stata nel frattempo anche presidente della Rai (se non è un covo reazionario quello....). Due: D'Alema faceva politica già trent'anni fa (tutta una vita) ed era già il capo (nominato dall'alto) della Fgci (che non è la federazione gioco calcio). Tre: la mitologica Rossana Rossanda a una giovane Annunziata, giornalista Manifesto al tempo, che si avviava verso l'ennesima manifestazione disse dolcemente (è proprio scritto così) di non bruciare troppe macchine. Ripeto: disse dolcemente di non bruciare troppe macchine. Chissà cosa dissero quelli a cui la macchina era stata bruciata..... Inutile dire che, ieri come oggi, i borghesi veri e ricchi parcheggiano in garage. Ma forse nel 1977 non lo sapevano....

14 giugno 2007

Mistero Brakspear


Piccolo quesito per gli appassionati birrofili. Ma l'inglese Brakspear non aveva chiuso i battenti? Lo chiedo perché un paio di settimane fa, di passaggio dal negozio di Flavia Nasini A tutta birra (http://www.atuttabirra.com/) sono incappato in due etichette della piccola birreria di cui Camra e What's Brewing avevano annunciato la chiusura con demolizione e successiva costruzione di hotel, residence o qualcosa del genere... Che dire? Assaggiata la Organic non l'ho francamente trovata molto emozionante con un equilibrio decisamente sbilanciato verso il dolce per una stucchevolezza che mi ha lasciato un po' perplesso pensando, che so, all'ottima Old Man Ale della Coniston Brewery per non parlare della Bitter di Ridgeway. A proposito di Ridgeway, il suo mastro birraio è quel Peter Scholey che era in forza alla Brakspear prima del suo "funerale" nel 2002. Quindi? Sull'etichetta della Triple da 7,2% vol compare la firma del'head brewer ovvero T.R. Moss (mi sembra di capire... quel R. Moss però mi fa venire i brividi pensando al mascellone di Beautiful...). La proverò a breve, ma il dubbio rimane... Se qualcuno ha la soluzione è pregato di farsi avanti. Sì, lo so, Internet è ampia e dovrei provare a cercare di svelare l'arcano da solo. Ma, allora, che diavolo ho creato a fare questo blog?

11 giugno 2007

Tra Torrechiara e il Po



Ancora eventi birrari. Ormai quasi con cadenza settimanale. Birra di Marca a Mogliano Veneto con i birrifici della provincia, credo quella a più alta densità italica, e poi ArteBirra Pasturana. In mezzo il Panil Day e un Po di Birra. C'è da perderci la testa ma, in fondo, è un segno dei tempi. Ladies and gentleman, la birra artigianale è di moda... Ne prendo atto e valuto rapidamente pro e contro. Pro: aumentano le persone che iniziano a distinguere una weizen da una blanche e ne capiscono il perché; riprendono vigore le birre chiamate genericamente "speciali" che una volta servivano a completare la gamma centrata solo sulle lager; crescono le opportunità commerciali per i piccoli birrifici, anche grazie alla curiosità e alla maggiore apertura di enoteche e ristoranti. Contro: i brewpub e i micro aprono quasi come funghi più per aver fiutato il business che per passione vera; i giornalisti iniziano a scatenarsi sull'argomento, poco importa se non ne sanno niente o se, capita, non gliene frega niente; si moltiplicano gli esperti di settore e, per converso, i veri esperti fanno l'errore si sentirsi sotto assedio e, istericamente, proclamano il loro diritto di poter essere gli unici a parlare. Morale: ben venga la moda, sapendo che magari sarà passeggera e approfittatene birrai cercando di intuire quale evento vi è utile e quale no, parlate con i giornalisti anche se poco sanno di birra. Alcuni giornalisti, ho già avuto modo di dirlo, sono un po' come le locuste: arrivano, mangiano e se ne vanno. E' quando stanno mangiando che li deve prendere. Sarà triste e ingiusto, ma è la stampa, bellezza (battuta non mia).
Ma il post doveva parlare di tutt'altro, su questi argomenti generali ci ritornerò sopra. Invece la giornata Panil è stata da incorniciare. La sagoma del castello di Torrechiara (dove hanno girato alcune scene di Lady Hawke con Michelle Pfeiffer) è imponente come al solito, Renzo Losi un geniale "paracadutista" della birra. Nel senso che lui si lancia e nessuno, forse nemmeno lui, sa se il paracadute si aprirà o meno. Ma volete mettere l'adrenalina, e il senso di meraviglia quando si apre? Così per le sue ultime creature, la Black Oak e la Divina, il mio primo pensiero è stato "o mio Dio...". Non vedevo aprirsi il paracadute. Poi la Divina soprattutto, la prima birra a fermentazione spontanea prodotta da un micro italiano, si è aperta in profumi fortemente agrumati (le caramelle charms al limone secondo me, la macedonia cinese secondo Valentina che ha riscosso maggior consensi) e di esteri che lasciavano percepire una nota dolce quasi nascosta al naso. Non alla bocca però dove era percepibile insieme a una leggera astringenza per una birra molto fresca e godibile a mio avviso. Paracadute, insomma, aperto. "Semplici" applausi a scena aperta invece per le sue Barriquee con la mild che si dimostrava a dir poco sontuosa con una delle migliori torte al cioccolato mangiate negli ultimi anni (ristorante da Gardoni, Torrechiara).
Il giorno successivo invece, gita sul Po grazie all'originale idea di due circoli birrari (ebbene sì, ci sono anche quelli adesso... mai sentito parlare invece di circoli vinicoli...), uno di Parma e uno di Mantova. Birre di ottimo livello, Beppe Vento insieme a Leonardo Di Vincenzo mi sembrano i produttori più creativi del momento, ma due menzioni (solo per motivi di spazio): la prima va alla A.F.O., Ale for obsessed, del nuovo Birrificio del Ducato di Roncole Verdi (mio paesino del cuore per motivi gastronomici inconfessabili) e la seconda invece per Michele Montani dell'imminente Birrificio Freccia credo di Mantova. La sua ale ha profumi netti e complessi, un ottimo retrogusto e un finale persistente. Il ragazzino promette bene e la direzione va verso l'alto come la freccia del nome. Avendo solo 19 anni farà birra, almeno mi auguro, per i prossimi 50. E, me lo auguro di nuovo, anche quando questa moda sarà passata.

6 giugno 2007

Giacomo Tachis, uomo del vino



Ancora da Vie del Gusto, ancora un enologo ma in formato "long playing" ovvero senza tagli redazionali, ecco il frutto dell'intervista a Giacomo Tachis. O meglio, delle numerose piccole interviste-colloqui con questo enologo-mito in realtà umanissimo, profondo, ironico e mai autoreferenziale. Ho iniziato con un po' di tremore nelle gambe e oggi sto leggendo, da bravo scolaro, testi di Burgundione da Pisa, più relazioni e interventi di Tachis stesso. Me li ha mandati lui e gliene sono grato, farò del mio meglio per farli diventare miei. Che cosa mi è rimasto impresso di una persona ormai trattata più come un santone, una leggenda, una reliquia? La sincerità e un certo sprezzo per i tanti balletti da Folies Bergeres che si vedono nel vino. Lunga vita a Tachis, eroe del tempo in cui il vino parlava di vino. E gli uomini del vino parlavano poco.
Da Vie del Gusto, giugno 2007
«Il vino? È stata la cosa che mi ha dato da mangiare…». Già dalla prima dichiarazione l’alone quasi mistico che lo circonda è abbattuto. Ma se a farla è proprio il diretto interessato, si capisce subito che ci deve essere sotto qualcosa d’altro. Giacomo Tachis è una delle persone più rispettate nel mondo del vino, carico di elogi, di riconoscenza, di appellativi che avrebbero fatto piacere a un antico imperatore romano. A lui, però, no. «I giornalisti scrivono un sacco di cavolate, accendono degli inutili riflettori su una professione che non è diversa da tante altre; io ho solo fatto del vino», taglia corto. Certo, gli dobbiamo riconoscere noi che siamo giornalisti, del grande vino. I nomi sono tutti stampati nella mente non solo degli addetti ai lavori: Tignanello e Sassicaia, ormai li conoscono tutti. Ma è confortante sapere che, in un mondo dove apparire è più importante che essere, l’uomo che più di tutti potrebbe addobbarsi di presunzione e di retorica, parla semplice e chiaro. «Gli enologi dovrebbero soprattutto avere sensibilità e cultura, nel senso più ampio del termine, altrimenti rischiano solo di copiare o di essere dei semplici “mescolatori di vino”, come si è soliti dire. Devono studiare e ricercare, guardando ai risultati concreti e non a quello che scrivono riviste e guide». Piemontese di nascita, toscano d’adozione, Giacomo Tachis ha studiato ad Alba e ricorda molto bene i tempi duri del suo esordio. Il che probabilmente gli consente di guardare con un certo distacco alla gloria attuale. «Amavo studiare, ma ho cominciato enologia perché un cugino di mia madre poteva aiutarmi ad inserirmi nel mestiere. Poi la cosa non si è realizzata e ho dovuto sbarcare il lunario cercando prima un impiego in una cantina spumantistica piemontese e poi in un’azienda liquoristica. È stato un mio professore, che mi stimava, a segnalarmi la possibilità di venire in Toscana a lavorare». La sua storia è talmente nota che è quasi inutile riproporla qui: l’incontro con la famiglia Antinori prima, e con Incisa della Rocchetta poi, hanno cambiato per sempre la sua vita. «Ma quando sono andato in pensione», commenta oggi, «avrei voluto tagliare del tutto con il vino. Purtroppo non ci sono riuscito». Il purtroppo non è tutta la verità, perché Tachis possiede il “daimon” del vino e benché i suoi interessi culturali si ramifichino in campi diversi, dall’archeologia alla musica, è proprio nel vino che essi trovano espressione. Non a caso, dopo aver chiuso la sua esperienza in Antinori, accetta una consulenza in Sicilia e una in Sardegna. «Amo le isole, ne sono rimasto completamente affascinato benché», osserva con ironia, «io non sappia nuotare e mi accontenti di camminare sulle rive. Ma la loro storia, la loro cultura sono state per me un richiamo irresistibile». Sarà stato forse un caso che la riscoperta della qualità del vino siciliano è coincisa con la discesa di Tachis nell’isola? Meglio non chiederlo a questo enologo schivo che, se sente odore di piaggeria, tende a innervosirsi. Preferisce citare Goethe, Burgundione da Pisa e Pier de Crescenzi che segnalare dei vini che ama. «Ma, sia chiaro», conclude, «io il vino l’ho sempre amato e rispettato, le mie scelte sono sempre state dettate dal cuore e, soprattutto, dal gusto». Anche adesso, che si gode un po’ di pace e di tempo libero nella sua casa in Toscana, «preferisco vivere vicino a un albero che vicino a un palazzo», è il cuore e il gusto che gli consigliano le letture preferite, le consulenze da accettare, gli interventi pubblici da tenere. E forse è questo il suo messaggio più importante: cuore e gusto dovrebbero governare le scelte di tutti. Anche quando si tratta di vino.
Maurizio Maestrelli

4 giugno 2007

Degustando s'impara


Mi sono reso conto che le iniziative dedicate alla birra che mi vedono, a vario titolo, coinvolto sono più frequenti di quanto io riesca ad aggiornare il blog. Un problema non da poco che risolvo però in modo "gordiano" pensando che A) sono pagato per scrivere sui giornali e non sul blog B) non mi sembra che appena posto qualcosa si radunino adunate oceaniche di persone per leggere quello che mi passa per la testa oppure ho vissuto. Un pizzico di cinismo (A) e un pizzico di realismo (B) non guastano mai e sono merce rara. Soprattutto nelle lande italiche. Facciamo allora un passo indietro, più o meno di una settimana, e andiamo alla serata maceratese di degustazione birre (inglesi di Lorenzo Fortini alias Terza Cerchia) e formaggi (idem). Inutile dire quanto sia le une sia le altre fossero di assoluta bontà: provate se vi capita lo Shropshire Blue e la Thomas hardy's giovane, è abbinamento orgasmatico e il modo migliore per far fuori una Thomas Hardy's che meriterebbe sempre un adeguato invecchiamento in cantina. Se non trovate lo Shropshire, tentate con uno Stilton. Davvero godurioso. ma, al di là appunto della bontà da leccarsi i baffi, la serata marchigiana (ideata dagli amici de www.ilportaledellabirra.net) è stata un'interessante occasione per constatare come il fascino birroso stia contagiando persone che fino a qualche anno fa non si sarebbero viste nemmeno portate in catene. Un bel segno indubbiamente. Il giorno successivo è stato invece quello della presentazione a Milano della Pilsner Urquell alle redazioni di Condè Nast. Qui l'elemento da sottolineare a mio avviso è lo sforzo di grandi aziende come Peroni di promuovere i loro prodotti attraverso le degustazioni e non solo con campagne pubblicitarie in grande stile. Parlare di birra in quanto prodotto "alimentare" con caratteristiche specifiche, ingredienti che cambiano di birra in birra, tecniche di produzione e diversi tipi di fermentazione. Quello che una volta insomma, almeno da noi, era un linguaggio per iniziati o per confraternite. Morale della favola: sta arrivando l'onda della birra, la gente sulla spiaggia è curiosa e pronta a confrontarsi con tipologie e aromi, luppoli e malti. E noi? Noi, stiamo passando la cera sulla tavola da surf...