Articolo pubblicato su BarBusiness di maggio. Ma il posto e i due "pards" che lo guidano, Marco e Salvatore, sono un punto di riferimento per tutti coloro che hanno a che fare con la birra. Per questo motivo, senza indugio ulteriore visto che il pezzo è lunghetto assai, ecco quello che penso della Ratera.
Da BarBusiness, maggio 2007
Una sfida coraggiosa, una pazzia vera, un’intuizione geniale. Forse La Ratera di Milano è tutte e tre le cose messe insieme. Certo che, in un Paese che ha decine di cucine regionali diverse, popolato da un nugolo di chef innovativi e da un numero superiore di quelli “della tradizione”, pianificare razionalmente una cucina interamente dedicata alla birra, ovvero a una bevanda di cui pochi compatrioti ancora conoscono le meraviglie, potrebbe essere letteralmente da camicia di forza. Invece quella portata da Salvatore Garofalo ha le maniche slegate, con braccia e mani che si muovono rapide a fare listarelle di verdure, sfilettare un dentice, impastare il pane, soffriggere e via di questo passo… Salvatore ha 38 anni e un curriculum di tutto rispetto: scuola alberghiera ed esordio ai fornelli a 17 anni, esperienze a Milano da Pietro Leemann e da Sergio Mei, poi a Erbusco da Gualtiero Marchesi e a Cassinetta di Lugagnano da Ezio Santin. «Tutte esperienze preziose», commenta adesso, «che mi hanno arricchito moltissimo, culturalmente e tecnicamente. Devo molto soprattutto a Leemann che mi ha insegnato il giusto approccio verso la cucina e alla filosofia che ci sta dietro; mi ha fatto capire che non ci si deve mai sentire soddisfatti e che ogni piatto è perfezionabile. E poi a Ezio Santin, da lui ho capito che cosa vuol dire semplicità e l’importanza della ricerca della materia prima, non fine a se stessa, ma come mezzo per arrivare all’essenza del sapore». Fantastico, verrebbe da commentare, ma cosa ci fa un personaggio del genere tra bottiglie di lambic del Payottenland, belghe d’abbazia, rauchbier tedesche e birre artigianali italiane? «Perché in Italia, a certi livelli è praticamente un territorio inesplorato», risponde con entusiasmo, «e c’è quindi il gusto di essere dei pionieri. Poi la differenza, in cucina, con il vino è abissale: la birra conferisce una maggiore personalità al piatto e lo spettro degli aromi è molto più ampio e diversificato rispetto al vino». E su questo non ci sono dubbi, in effetti, considerato che tra l’acidità aromatica di un lambic a fermentazione spontanea e una stout realizzata con fave di cacao ci sono decine se non centinaia di birre dai profumi e sapori diversi: birre al miele e birre affumicate, birre aromatizzate per infusione con foglie di tabacco toscano e birre maturate in legno, birre di frumento e birre al farro o al grano saraceno. Insomma, una ruota dei sapori talmente ampia che si potrebbe andare avanti dei mesi senza ripetere lo stesso piatto o lo stesso gusto. «Infine», riprende Garofalo, «ammetto anche che della birra mi piace l’approccio più informale da parte della clientela, nel vino c’è un po’ troppo snobismo». Si commetterebbe un errore però se si pensasse che Salvatore Garofalo sia un integralista. La Ratera non è un covo di “pasdaran” della birra, più semplicemente è una curiosità gastronomica che bisognerebbe togliersi almeno una volta nella vita. «Poi io non voglio banalizzare la cucina alla birra, non mi interessa semplicemente dimostrare che ogni piatto che proponiamo vede la birra tra gli ingredienti, anche se è vero che abbiamo avuto interi menu con la birra. Ma ogni piatto è studiato e provato e, spesso, prima di vedere la luce, certe ricette si affinano per settimane, fino al risultato voluto o che a noi sembra ideale». La ricchezza aromatica della birra, a volte, può anche essere una bella difficoltà, la nota amara che ne caratterizza una bella percentuale non è semplice da “addomesticare”. «È difficile dire che cucina faccio», continua Garofalo. «Faccio una cucina contemporanea, dove la ricerca della materia prima conta davvero tantissimo, dove la stagionalità dei prodotti è fondamentale. So bene che quest’ultima cosa è un fattore mentale più che tecnico, perché oggi si può avere tutto rapidamente e nelle massime condizioni di freschezza da tutto il mondo, ma per me è così. Io faccio la spesa e preferisco scegliere alimenti, ma anche oli o aceti, che siano biologici. Il pane lo facciamo in casa e il menu cambia anche ogni giorno. Il che vuol dire che preferisco avere una carta più limitata ma sempre diversa piuttosto che riproporre piatti che magari hanno già avuto un buon successo». Siamo, par di capire, ancora nella fase dello stimolo, se non della provocazione, perché comunque una cucina creativa, moderna e italiana, che prendesse così a cuore le potenzialità della birra ancora non l’avevamo vista dalle nostre parti. E quindi, par sempre di capire, la clientela va incuriosita, “educata”, conquistata… Pur odiando gli elenchi, pensiamo che qualche piatto possa incuriosire anche così, nero su bianco. Eccolo dunque servito: insalata alla Rosé de Gambrinus, Stilton, crostini di pane all’aglio e acciughe; corzetti liguri alla Westmalle Dubbel con pesto di noci, pinoli e maggiorana; filetto di maiale all’Aventinus con salsa di mandorle e pepe di Sechuan. Tra i dolci, la cassata alla Isaac e il cilindro dolce alla Montagnarde. Anni luce di lontananza da quella che si potrebbe presumere, a patto ovviamente di non conoscere La Ratera e Salvatore, sia la cucina alla birra ovvero manzo alla stout e carbonade flamande. Il suo gazpacho di pomodori verdi alla fiabesca Orval, birra trappista leggendaria anche per l’aneddoto che la lega a Matilde di Canossa e un anello d’oro ripescato da una trota “salterina”, con calamari ripieni di panzanella di pane integrale e burrata è invece un piatto estivo delicato e di immediata freschezza, di moderna tonalità cromatica, il verde quasi psichedelico dei pomodori, e perfetto equilibrio di sapori.
Se Garofalo è comunque il deus ex machina della via italiana alla cucina alla birra, Marco Rinaldi, l’uomo che ha creato La Ratera, ne è certamente il mentore più appassionato. Spillatore perfezionista e un po’ maniacale, ma nel senso buono del termine, ha scommesso sulle birre artigianali di qualità in tempi non sospetti e anche le sue scelte all’estero rivelano gusto e olfatto scrupolosi. Ha lavorato insomma su basi già molto buone, basti pensare che chi non sa spillare o conservare adeguatamente una birra può farle gli stessi danni di un sommelier che conservasse del Barolo vicino a un termosifone, ma il “tarlo” di un’alta cucina alla birra gli rodeva dentro da un bel po’. «Forse l’idea della Ratera così come è oggi», spiega, «l’ho sempre avuta in testa. Ma mai come in questi anni, alle migliori birre straniere, si sono affiancate numerose ed eccellenti produzioni italiane, il che ha creato le condizioni ideali per sperimentare una cucina di alto livello che fosse innovativa ma, allo stesso tempo, vera e concreta». Il suo locale è suddiviso su due piani, a piano terra c’è il banco di spillatura e qualche tavolino per chi non vuole cenare ma non sa rinunciare a una birra ben spillata, sopra invece la sala ospita appena trenta coperti in un ambiente dalle tonalità calde e rilassanti. Il lunedì sera è il giorno ideale se ci si vuole concentrare al massimo sulle creazioni di Salvatore, mentre gli amanti del jazz, altra passione di Rinaldi, devono solo consultare il programma o fare una telefonata. In estate si sfrutta anche il dehor esterno, ambita soluzione “di riserva” per chi ancora si ostina a fumare.
È così dunque che, a due passi dal parco di Trenno, è sorto un laboratorio, è il nostro sincero augurio, di sicuro avvenire. Certo, tutti i pionieri pagano lo scotto di non avere nessuno da seguire e la conversione degli avventori di una birreria a un ristorante alla birra, la distinzione è più di notevole di quello che si potrebbe pensare, non è sempre facile o priva di intoppi. Di lavoro, soprattutto sulla comunicazione e sulla selezione della clientela, ce n’è ancora da fare; ma è un discorso di priorità: contano di più le materie prime o una pubblicità azzeccata? Saremo di vecchio stampo ma, visto che al ristorante ci andiamo per mangiare più che per contemplare gli altri commensali o i quadri alle pareti, noi votiamo in scioltezza le materie prime. E con la stessa disinvoltura, votiamo Salvatore e Marco.
Se Garofalo è comunque il deus ex machina della via italiana alla cucina alla birra, Marco Rinaldi, l’uomo che ha creato La Ratera, ne è certamente il mentore più appassionato. Spillatore perfezionista e un po’ maniacale, ma nel senso buono del termine, ha scommesso sulle birre artigianali di qualità in tempi non sospetti e anche le sue scelte all’estero rivelano gusto e olfatto scrupolosi. Ha lavorato insomma su basi già molto buone, basti pensare che chi non sa spillare o conservare adeguatamente una birra può farle gli stessi danni di un sommelier che conservasse del Barolo vicino a un termosifone, ma il “tarlo” di un’alta cucina alla birra gli rodeva dentro da un bel po’. «Forse l’idea della Ratera così come è oggi», spiega, «l’ho sempre avuta in testa. Ma mai come in questi anni, alle migliori birre straniere, si sono affiancate numerose ed eccellenti produzioni italiane, il che ha creato le condizioni ideali per sperimentare una cucina di alto livello che fosse innovativa ma, allo stesso tempo, vera e concreta». Il suo locale è suddiviso su due piani, a piano terra c’è il banco di spillatura e qualche tavolino per chi non vuole cenare ma non sa rinunciare a una birra ben spillata, sopra invece la sala ospita appena trenta coperti in un ambiente dalle tonalità calde e rilassanti. Il lunedì sera è il giorno ideale se ci si vuole concentrare al massimo sulle creazioni di Salvatore, mentre gli amanti del jazz, altra passione di Rinaldi, devono solo consultare il programma o fare una telefonata. In estate si sfrutta anche il dehor esterno, ambita soluzione “di riserva” per chi ancora si ostina a fumare.
È così dunque che, a due passi dal parco di Trenno, è sorto un laboratorio, è il nostro sincero augurio, di sicuro avvenire. Certo, tutti i pionieri pagano lo scotto di non avere nessuno da seguire e la conversione degli avventori di una birreria a un ristorante alla birra, la distinzione è più di notevole di quello che si potrebbe pensare, non è sempre facile o priva di intoppi. Di lavoro, soprattutto sulla comunicazione e sulla selezione della clientela, ce n’è ancora da fare; ma è un discorso di priorità: contano di più le materie prime o una pubblicità azzeccata? Saremo di vecchio stampo ma, visto che al ristorante ci andiamo per mangiare più che per contemplare gli altri commensali o i quadri alle pareti, noi votiamo in scioltezza le materie prime. E con la stessa disinvoltura, votiamo Salvatore e Marco.
Maurizio Maestrelli
1 commento:
Salud2 desde Chile
Tiranizan
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