11 agosto 2011

L'età dell'innocenza (perduta)


Tre indizi fanno un sospetto? Forse sì. Ricapitoliamo: da qualche mese a questa parte il Birrificio Italiano ha arruolato un ufficio stampa esperto e professionale come Rossi&Bianchi di Milano; il Birrificio del Ducato ha “buttato fuori” Emanuele Aimi con uno stile e un comunicato che nemmeno le multinazionali, notoriamente assetate di sangue, si potrebbero permettere; infine, sfogliando velocemente l’Annual Report 2011 di Assobirra, ecco spuntare il nome di Leonardo Di Vincenzo nel consiglio direttivo, ma fa più figo dire board, della stessa associazione. Tre indizi, un sospetto. 
Il sospetto che per la birra artigianale italiana si sia chiusa la stagione del “dilettanti allo sbaraglio”, del “volemose bene”, del “siamo tutti un movimento” e abbia decisamente imboccato il percorso aziendale e imprenditoriale che le compete. Insomma, meno poesia e più prosa. I tre indizi ovviamente, ci tengo a precisarlo, sono scelte legittime e poco discutibili, anche se forse la durezza dei toni nel caso Ducato-Aimi ha lasciato perplessi molti (un messaggio di “eliminazione” più duro me lo ricordo solo nel Padrino quando Sonny Corleone apprende che Luca Brasi “dorme con i pesci”), ma è una mera questione stilistica e non essendo al corrente dei retroscena, la prendo per quella che è. Ma non sono tanto i singoli episodi che mi interessano, quanto piuttosto l’atmosfera generale o l’aria che tira. Essendo agosto, mese del cazzeggio supremo, fare i Nostradamus de noantri è divertente. Ergo, mi sembra abbastanza chiaro che la fase rivoluzionaria della birra artigianale italiana sia giunta al termine. Ora si gioca sul serio. Dalle visioni ispiratrici di Lenin si è giunti alla realpolitik, con molti meno morti è chiaro, di Stalin.
Tutto sommato, io dico, bene così. La chiarezza di ruoli, di politiche e di ambizioni è sempre meglio della confusione e dell’ipocrisia. I birrai artigiani non sono solo degli imprenditori che vogliono crescere (è ironico notare che questa definizione calzava perfettamente anche al giovane Guinness e al giovane Heineken quando partirono per la loro avventura), ma giocano tutte le carte a loro disposizione per farlo: c’è chi percorre le strade dell’export, chi si allea con grossi distributori, chi sdoppia le linee produttive… Tutto lecito, ma tutto sintomatico di un cambio di passo dettato da una sana voglia di emergere e forse anche dalla sensazione che, presto o tardi, nell’ambiente verrà fatta una selezione “naturale” della specie. Teo Musso, con le doti da precursore che gli sono proprie, lo va ripetendo da qualche mese e francamente non credo abbia senso discutere sul numero dei “sopravviventi” o se Teo, tra le altre qualità, abbia anche quella del menagramo. Che, prima o poi, un taglio ci sarà è desumibile da diversi fattori: la crescita esponenziale dell’ultimo periodo, la notevole improvvisazione da parte di molti dei nuovi arrivati, il fattore “moda”, l’ingresso di imprenditori ai quali sembra di aver colto il “business” del decennio, l’attenzione, a dire il vero un po’ caotica e pressappochista, degli interlocutori “danarosi”, leggesi chef, l’estremizzazione spinta da parte di un certo tipo di pubblico al quale sembra non solo fare schifo una birra industriale qualsiasi, ma pure molte artigianali, per così dire, non da veri intenditori.
Tutti elementi che è facile capire come, presto a tardi, siano destinati a sgonfiarsi. Le mode, come l’idea di business facile e vincente, passano, i ragazzini crescono e magari si trasferiscono in massa a deglutire Nero d’Avola “tripla barricatura”, gli chef potrebbero passare alla cucina con fave di cacao monorigine… Ergo, ecco che i più brillanti, intuitivi e sagaci imprenditori del settore artigianale hanno iniziato a fare i loro conti. E se li fanno loro, dovremmo cominciare a farli anche noi. Consumatori, appassionati non dell’ultima ora e operatori vari. Che tipo di conti: bah, innanzitutto facendo selezione tra birre artigianali buone e birre artigianali da buttare, esistono entrambe le categorie, tra imprenditori che sanno fare il loro mestiere e altri che invece lo stanno ancora imparando, tra quelli che predicano bene e razzolano male. La patente di produttore di birra artigianale non assicura ormai nessuna verginità, nessun alone di santità, nemmeno contro gli orchi delle lager. Credo che vada detto e ricordato. L’età dell’innocenza è finita. E io, in parte, tiro un sospiro di sollievo…

1 commento:

lucasalv ha detto...

Teo l'avrà detto ma in molti l'avranno pensato. I birrifici ormai sono veramente tanti ed è chiaro che qualcuno inizia a guardare avanti. A dire il vero sul discorso della localizzazione già da tempo ho notato che alcuni non si vedono mai in giro per festival, raduni etc ma vanno molto forte nel loro territorio e secondo me, zitti, zitti hanno gettato delle buone basi per il futuro. Futuro che invece è un pò buio per quei bravissimi appassionati un pò accecati dall'amore per il loro lavoro. Poi andando a leggere l'intervista di Teo, veramente, diamo un freno a questi luppoli americani....stanno effettivamente omologando i prodotti