27 aprile 2011

Vichinghi contro bizantini

Jurij Ferri
Definizione del termine "bizantinismo" su sapere.it: "modo di pensare sottile e cavilloso o che si disperde in ragionamenti inutili e privi di risultato; compiacimento della complicazione fine a se stessa". 
Questo per spiegare almeno in parte il titolo criptico di questo post che non ha nulla a che vedere con qualche gioco di società stileRisiko, ma con la notizia apparsa ieri sera su Facebook, della multa comminata a Jurij Ferri, birraio e titolare dell'Almond '22 di Pescara, per il fatto di riportare, in etichetta, la dicitura "birra artigianale". Ora la questione, rilanciata in breve tempo in più webluoghi dell'etere birrario, da Cronache di Birra al blog di Lelio, dal forum di Mobi a quello di UB passando per il blog di Bad Attitude, è stata raccontata un po' da tutte le angolature e con opinioni diverse restando peraltro condivisa la solidarietà, alla quale mi associo, verso Jurij per una multa che appare ridicola come una farsa se non fosse per il fatto che viviamo in un Paese dove la farsa è una costante pressoché quotidiana. Una farsa proprio perché, da tempo, sono convinto che la dizione "artigianale" per la birra sia una "non definizione" e una farsa perché in un Paese dove le frodi alimentari ti possono portare all'obitorio, come un recente caso all'Auchan di Torino dimostra, fare una multa perché una legge non prevede la dizione "artigianale" di fianco alla parola "birra" dovrebbe far sbellicare dalle risate. In campo alimentare ormai, è quasi tutto artigianale, qualsiasi cosa questa parola voglia dire. E quando tutto è artigianale, nella testa del consumatore, nulla lo è. E' un po' la tecnica cara a molti quotidiani su argomenti più seri e che si riassume nel "tutti colpevoli, nessun colpevole". Certo che poi, nel rispetto della più classica tradizione italiota, si potrà anche "trovare l'inganno". Come qualcuno ha già scritto, basterà mettere un punto, una virgola, chiamare la birra "artiggianale" o qualsiasi altra cosa. 

La legge in Italia non è una cosa seria. In primo luogo perché una Nazione paragonabile sotto molti aspetti alla Francia ha prodotto, dal dopoguerra a oggi, una mole di leggi e leggine decine di volte superiore a quella transalpina (immagino per la gioia di legulei e avvocati) con l'unico scopo di creare un tale casino che quasi sempre si può sostenere, in tribunale, tutto e il contrario di tutto, poi perché i tempi della giustizia civile sono letteralmente biblici (con tutta probabilità solo i nostri figli sapranno di come è andata a finire la storia di Almond '22), infine perché, appunto, "fatta la legge, trovato l'inganno". Insomma, un cambio di etichetta, anche fatto con il Tratto-Pen, e via andare. La battaglia con il Leviatano burocratico è da generazioni una sfibrante, ma a volte emozionante, guerriglia, un combattimento casa per casa. Tuttavia, forse, il nocciolo della questione sta proprio nell'uso del termine "artigianale". Lo so, sarebbe brutto metterlo in soffitta perché è un po' come ammettere che sia stato scippato da chi artigianale non è, ma visto che io mi sono da tempo iscritto alla sparuta pattuglia di chi non crede che artigianale sia sinonimo di qualità tout court, ecco che allora la vicenda Jurij (sulla quale però un po' di clamore mediatico bisogna pur farlo) potrebbe essere l'occasione per un ripensamento globale dell'intera faccenda. Nel senso che, posta la dizione spero incontestabile di "birra prodotta da birrificio artigianale" in quanto iscritto alla categoria artigiani (come mi sembra sia il caso di Jurij), ci si dovrebbe maggiormente concentrare sul valore della qualità costante, sulle materie prime, sull'interpretazione di birre riconducibili a un territorio e sulla creatività, la vera arma in più a mio avviso, dei piccoli birrifici. Piccoli esatto, la parola non è brutta né squalificante, piccoli per dimensione, piccoli per volumi, piccoli per personale e piccoli per distribuzione. Le microproduzioni sono sempre più spesso sinonimo di qualità perché quando fai poco, quanto è da stabilirsi, sei più sicuro che quello che vendi lo hai proprio fatto tu, che la distribuzione ce l'hai tutta sotto controllo, insomma che sei tu che decidi perché, è inevitabile, più deleghi e meno controlli. In definitiva, la battaglia tra il vichingo (Jurij) e i bizantini (lo Stato) potrebbe essere un casus belli interessante in senso più ampio. Anche per non sentirsi, un domani, definire come Teo Musso in questa notizia riportata dalla Repubblica edizione di Genova.

26 aprile 2011

Mangiarsi le mani

Odio questa sensazione. Quella, ad esempio, che mi prende sempre quando esco da una fiera e mi viene in mente che non sono stato a visitare quel produttore oppure non ho salutato quel tizio che vedo solo una volta l'anno. E' la sensazione che provo quando organizzo un viaggio di lavoro e poi, all'ultimo momento, salta fuori qualcosa che me lo fa annullare. Infine, è più o meno la stessa sensazione che ho quando organizzo una cosa e poi scopro che nello stesso periodo se ne fanno altre che mi interessano nella stessa misura. Tuttavia è una sensazione con la quale sto imparando a convivere, visto che non ho il potere di dettare i calendari. Ergo da giovedì 28 a lunedì 2 maggio sarò, saremo con Valentina, impegnati in un viaggio stampa nel Salento. Vista la foto presa a caso qui sotto, non ho proprio nulla da lamentarmi, lo so, ma ci tengo a dire
Costa Salentina

che, se fossi dotato di teletrasporto o avessi il dono dell'ubiquità, mi sparerei allegramente la tre giorni della United Indi Pubs, a Vezzano sul Crostolo in provincia di Reggio Emilia. Il primo maggio invece farei certamente un salto a Piozzo, per l'Open Day 2011. Nel primo caso, la lista delle birre presenti è sufficiente a stimolare qualche centinaio di kilometri anche se fossero servite su bancarelle poste sotto un ombrellone, in più la tavola rotonda sulla birra artigianale e i suoi canali distributivi si preannuncia quantomeno stimolante. Nel secondo caso, quello "piozzese", la presenza in contemporanea di Jean Van Roy - Cantillon, Greg Koch e Mitch Steele - Stone Brewing, Rudi Ghequire - Rodenbach e Rob Tod - Allagash per parlare insieme a Teo e Kuaska su "Affinamento e fermentazione in legno", basta e avanza per farmi il solito saliscendi per le colline langarole che portano al "villaggio Baladin". Insomma, chiunque abbia un minimo di passione birraria può capire il mio stato d'animo. Mi piacerebbe molto che qualcuno registrasse, traducesse e mettesse per iscritto gli atti del convegno di Piozzo (ho già provato a buttarla lì a qualcuno di Le Baladin) e potrebbe essere interessante se altrettanto si facesse per la tavola rotonda all'United Indi Pubs. Credo che cominci a essere importante, nel mondo della birra artigianale, fissare alcune tappe che potrebbero, uso il condizionale, essere utili in futuro. Intanto, io continuo a tenermi questa maledetta sensazione....

22 aprile 2011

Bad Attitude rocks!

Mi piacciono i birrifici artigianali che si danno da fare con la comunicazione anche perché, è una battuta, sono talmente pochi... Per cui apprezzo la direzione che ha preso il Bad Attitude di Lorenzo Bottoni & Co., una direzione nettamente controtendenza rispetto ai tanti che sembrano guardare solo il mondo della ristorazione. Non che una strada sia più giusta dell'altra, solo che in entrambi i casi ci vuole della coerenza, capacità di "soffrire" (non è detto che i risultati arrivino subito) e una buona dose di lungimiranza. Bad Attitude, mi sbaglierò, mi sembra abbia le idee chiare sia sulla direzione sia sulle tappe da raggiungere.
Come as you are

Scrivo questo perché sono stato nuovamente coinvolto, come altri blogger, nella cosiddetta Tasting Room del birrificio svizzero dal cuore italiano con due nuovi prodotti: la Kurt e la Two Penny. Al di là del gentile omaggio, l'idea di far parlare il mondo web dedicato alla birra su prodotti concreti e non, semplicemente, su voli pindarici corrisponde a quell'idea di micromarketing e di microcomunicazione sulla quale dovrebbero puntare i microbirrifici. A una produzione di nicchia, almeno in termini di volumi, deve corrispondere una comunicazione di nicchia, se non altro in termini di budget. Chi è bravo e si dà da fare può crescere, chi si lamenta... Si lamenta e basta.
Delle impressioni di assaggio parlerò più avanti. Per ora devo dire che l'idea di una birra artigianale in lattina mi piace. Non ho saputo resistere e la Kurt, dopo un passaggio in frigo, l'ho aperta e il primo sorso l'ho bevuto direttamente dalla lattina. Erano anni che non mi capitava e l'ho goduto pienamente. Profumi e carattere sono evidenti e la differenziano subito, nettamente, dalla marea di lager in lattina. Il packaging è tra lo scanzonato e il, volutamente, approssimativo ma c'è una buona dose di creatività "ribelle" che mi sembra rispecchi la filosofia, birraria e di vita, di Lorenzo Marcos Bottoni. Quasi quasi, farei tutta la linea in lattina...



Mi è piaciuto anche lo pseudo "bloc-notes" che accompagnava le birre. A dirla tutta, la prima sensazione è stata quasi un deja vu. Grafica, concetto, scrittura e citazioni mi facevano un po' Teo Musso style (non so Lorenzo come prenderà questa cosa), ma poi l'occhio mi è caduto sulla foto delle cuffie posizionate su quelli che credo essere dei manometri. E allora mi sono chiesto se è una citazione in stile "labour", le cuffie sono quelle da insonorizzazione del tipo "martello pneumatico", oppure una vaga, allusiva e ironica, citazione delle leggendarie cuffie per lieviti ballerini che contribuirono non poco a far parlare di Piozzo nel mondo della birra. Sia come sia, mi sembra che il Bad Attitude stia facendo un buon lavoro...

20 aprile 2011

Adesso, degustatemi questa

Mi serviva proprio un input esterno per postare qualcosa su questo blog che naviga a vista tra una commissione di lavoro e l'altra (anche se ho avuto la brillante idea di affacciarmi come Birragenda pure su Twitter, tanto per vedere l'effetto che fa) e l'input è arrivato...
"Gentilissimi appassionati di Birra, vi invio il comunicato stampa riferito ad una simpatica iniziativa "di provocazione" organizzata da un birrificio e da un distributore per contrastare la mania di commentare una birra non per il suo valore oggettivo ma per la simpatia soggettiva verso il birraio, per un'amicizia comune o semplicemente per "vicinanza" del birrificio...", questo era l'inizio della mail arrivata nel tardo pomeriggio. Lì per lì ho pensato a uno scherzo, passione che a volte prende i blogger con risultati imprevedibili soprattutto se qualche lettore, e parlo dei più "scafati", si fa cogliere dall'emozione, ma ora sono convinto che si tratti di una strategia di comunicazione interessante. Almeno per me che sto qui a scriverne.
La mail proseguiva con un vero e proprio comunicato stampa dal titolo che ho copiato per questo post con un passaggio introduttivo a dir poco sintomatico: "Nel giovane mondo della birra artigianale sta dilagando la Rater-mania. Un avatar, un nickname, una passione che a volte va oltre i limiti del buonsenso. A creare i polveroni sono sempre quel gruppetto di persone che giocano a chi ce l'ha più grande (il commento), a chi la dice più grossa (la critica) e a chi sputa più lontano (la sentenza), tutto, a volte, per il gusto di fare gli estremisti, prendendosi troppo sul serio e spesso senza una vera motivazione. 
Forse per “simpatia” verso il produttore? Forse per compiacere o divertire i propri amici?
Allora ecco che nasce un piccolo evento pensato per ironizzare su questa "mania" e scherzare con questi “estremisti”.
La birra "40"?

E il piccolo evento è una birra anonima per produttore e distributore, prodotta in soli 400 litri, una Bitter da 4% vol, "luppoli normali, niente di modaiolo", 40 Ibu di amaro, e una densità iniziale di 40. Numeri che non sono buttati lì a caso perché 40, che è pure il nome della birra, fa riferimento ai 40 "estremisti" accusati, anche se in maniera ironica, di "Rater-mania". La birra, conclude il comunicato stampa, avrà il suo debutto ufficiale il prossimo 28 aprile "nei migliori pub d'Italia" che saranno senza dubbio pochini se i litri saranno proprio solo 400. La lista dei pub dovrebbe essere comunicata a breve.
Sia come sia, e ammesso che la cosa non sia una boutade e basta, voglio fare qualche considerazione. La prima è che questo tipo di comunicazione è simpatica e ha senza dubbio il merito di destare l'attenzione. La seconda è che la "provocazione" nasce da uno studio di comunicazione (Salsamentarius) dove lavora, se non è addirittura titolare, Manila Benedetto, collega con passione per la birra, alla quale vanno i miei complimenti per un comunicato stampa davvero diverso dalle soliti tiritere che mi arrivano normalmente (e che durante Vinitaly stavano raggiungendo un livello di collasso). Ma la terza, e ultima, considerazione è l'immagine percepita degli appassionati di birra italiani... Ovvero, è davvero questa? Visti da fuori siamo o sono, vedete voi dove inserirmi, degli accalorati schiamazzatori, adoratori della rissa verbale, vivisezionatori della birra più strana, etc... Insomma, in nemmeno vent'anni abbiamo recuperato, e forse superato, i "fighettismi", termine in voga sul web, così terribilmente in vigore nel mondo del vino? Mi sa di sì, andando con la mente alle diverse letture fatte in questi mesi sul web birrario italiano e internazionale. Mi sembra ieri che quando si parlava di birra artigianale si ricordava sempre il "mitico" 1996 quando iniziò tutto, o quasi. Invece sono passati secoli. Ma non è tanto questo l'importante. Credo sia nel carattere italiota cadere in preda a raptus mistici dove dall'amore passionale si passa alla gelosia alla Otello. Oggi tocca alla birra, domani chissà. L'importante è, soprattutto per chi fa lavori noiosi che però ti tengono incollato al laptop tutto il giorno, coltivare una passione. E, nel frattempo, continuare anche a prendere uno stipendio. Ma il valore di questo comunicato, provocazione e birra a parte (incluso anonimato che non credo durerà a lungo) è che qualcuno, per la prima volta, ha giocato la carta degli "estremisti" per far parlare di sè. Significa che questa percezione, di "birrofighettismo", si sta diffondendo. Mi sembra l'inizio del percorso che ha fatto il vino, che dai documentari di Mario Soldati è passato alle prese per il culo di Antonio Albanese...

11 aprile 2011

Luci e ombre da "Birritaly"

Vabbé, punto primo: tentare di fare Vinitaly in un solo giorno è divertente, ma faticoso. Farlo poi sotto il solleone veronese può essere definitivo. Comunque, se non altro, ti aiuta a fare delle scelte. Per me, questo è stato il Vinitaly più birrario di sempre, non che ci volesse molto in effetti. Raggiunto subito di buona lena lo spazio Agrifood, un po' effettivamente tagliato fuori dalla kermesse dei padiglioni più imponenti, ho osservato l'angolino riservato ai birrifici artigianali che, come degli arditi, avevano deciso di varcare il sancta sanctorum del vino made in Italy. Non tutti gli stand, almeno al mio passaggio, avevano il birraio presente (ho visto solo Leonardo Di Vincenzo, Sergio Ormea e Agostino Arioli). Peccato, perché se si crede in una fiera delle proporzioni di Vinitaly bisogna esserci di persona, tuttavia Agrifood appariva davvero la panchina (se non la tribuna) dove le riserve delle riserve aspettano il loro turno. La differenza era ancora più evidente facendo un rapido giro al galoppo tra i padiglioni vinicoli.
Scene dal corner birre artigianali a Vinitaly
Lamentele in questo senso mi sono giunte da Grado Plato e da Tenute Collesi. Quest'ultime sistemate, non so il perché, sempre ad Agrifood ma da tutt'altra parte. L'anno scorso, a detta dei produttori marchigiani, una sistemazione più a ridosso di aziende del vino e distillatori aveva di riflesso fatto arrivare un numero superiore di operatori, anche stranieri. Ne deduco quindi che, da sola, la birra artigianale a Vinitaly non attrae ancora così tanto. Ma se qualcuno ha mosso delle critiche altri sembravano più soddisfatti. Leonardo era in gran forma e faceva assaggiare a raffica tutta la sua produzione, con una Sedicigradi in splendide condizioni. Da Le Baladin ho appreso, grazie Islaz, che la Erika ha cambiato nome causa proteste legali di un produttore tedesco che, come nello storico caso della Sangre de Toro di Beba diventata Toro per lettera del legale della spagnola Torres, ha fatto sapere di aver già registrato questo nome nel campo alimentare. La Erika di Le Baladin da oggi dunque si chiama Mielika: etichetta e bottiglia già bella che pronta per il birrificio piemontese che ormai pensa mondiale. Se infatti Teo è in partenza per un giretto in barca a vela in compagnia di Giovanni Soldini, Oscar Farinetti, Matteo Marzotto, Moreno Cedroni e Giorgio Faletti, il suo direttore commerciale Franco "Cico" Fallarini confessa che ormai l'export vale il 20% del fatturato e che i mercati principali sono gli Usa (consolidati), l'Australia e l'emergente Brasile dove la birra artigianale made in Italy piace molto. Almeno quella firmata Baladin visto che prossimamente Teo e
Addio Erika, benvenuta Mielika
Cico andranno in pellegrinaggio da quelle parti (in aereo presumo) per diffondere il verbo della birra made in Piozzo.
Amarcord invece resta in Italia, almeno di persona, perché gli stranieri li fa venire qui. Ha infatti visto la luce la prima collaborazione tra il brewmaster di Brooklyn Brewery, Garrett Oliver, e quello di Amarcord con la Riserva Speciale, etichetta disegnata da Tonino Guerra, che sarà presentata ufficialmente a giugno. In realtà questa birra è già stata assaggiata e votata, ergo credo sia già in giro, ma io ci sono arrivato solo ieri a Verona. E mi è pure piaciuta...
Per il resto, gradevole l'originale Weizentea di Grado Plato, fresca e leggerissima, accompagnata da una battuta al vetriolo da parte di Sergio sulle birre "strane" e buona come sempre la Ego di Tenute Collesi, una blanche corretta, profumata e che si lascia bere a lungo. Un particolare non indifferente, mi accorgo ultimamente, quando con birre artigianali che spuntano come funghi a ogni angolo (ultima in ordine di tempo la Gaita di Pratorosso comprata all'Esselunga), si inciampa sempre più spesso in prodotti anonimi, raffazzonati, magari interessanti di primo acchito ma che muoiono presto nel bicchiere. Un altro segno dei tempi, non c'è dubbio. Non so voi, ma io confesso che non riesco più a stare dietro all'esplosione di birre artigianali, non solo di birrifici, ma proprio di birre intese come etichette o, addirittura, variazioni di ricetta. Da Vinitaly sono tornato a casa con la Open Baladin versione Rolling Stone. Avevo chiesto speranzoso a Islaz se l'unica modifica riguardasse il tappo, invece è proprio una Open diversa. E allora stappiamo...

6 aprile 2011

Un Vinitaly di birra...

Eccoci dunque alla vigilia: domani scatta la quarantacinquesima edizione del Vinitaly a Verona. Croce e delizia per tutti coloro che si interessano al vino. Sia per venderlo, comprarlo, scriverne o semplicemente berlo. Di certo l'appuntamento è di quelli colossali, il circo Barnum della vitivinicoltura italiana. Quando lavoravo a Civiltà del Bere me lo sciroppavo tutto, dal primo all'ultimo sorso, ed era sempre una corsa contro il tempo per arrivare puntuali agli appuntamenti, saltare come un grillo impazzito dal padiglione del Piemonte a quello della Sicilia (che detta così potrebbe non significare nulla, ma chi conosce la location può immaginare le galoppate).

Ogni giorno, bastava un ritardo qualsiasi in una conferenza stampa e il tuo programmino calcolato al minuto andava a farsi friggere. Bei tempi, ora a Vinitaly ci vado molto più rilassato. Per fortuna. Una giornata basta e avanza. Si va per salutare, assaggiare qualcosina, soprattutto far capire che sei ancora vivo. Quest'anno però una differenza sostanziale l'ho trovata. Ad Agrifood, la rassegna dell'agroalimentare di qualità che sta dentro al Vinitaly, saranno presenti una pattuglia di birrifici come mai si era visto prima. Certo, il Baladin aveva già varcato la soglia di Veronafiere già qualche anno fa, segno che Teo vede sempre le cose in anticipo, ma questa volta l'elenco (probabilmente solo parziale) recita, oltre a Selezione Baladin: Birra del Borgo e Amarcord (entrambi rappresentati da Interbrau), Grado Plato, Birrificio del Ducato, Birra Abbà, Tenute Collesi, Birrificio Italiano, Birrificio Mani's, Birrificio San Gabriel, Società Agricola Pratorosso, Mastri Birrai Umbri, Theresianer...
Matrimonio d'intenti?

Chissà, forse l'anno prossimo il loro numero potrebbe pur aumentare. Cosa vuol dire, a parer mio, questa presenza birraria nel regno consacrato del vino? Che parecchi birrifici si stanno rendendo conto che per crescere, o magari anche solo per sopravvivere, bisogna allargare i confini... Che finché si gioca basta dare da bere alla nicchia degli appassionati, ma quando si comincia a fare sul serio i consumatori bisogna andare a cercarseli. Anche al di fuori del circuito birrario in senso stretto, leggi pub e birrerie. Non ho mai incontrato al Vinitaly, in circa dieci anni di presenza, molti publican. Ristoratori, enotecari, buyer... Quelli sì, a iosa. E sono loro, e solo loro, gli interlocutori di chi paga dei soldi per avere lo stand al Vinitaly... Poi, certo, ricorderemo tutti insieme i vecchi tempi quando le birre si bevevano al pub e si discuteva per ore sulle differenze tra una bevanda e l'altra. Differenze, di vario genere, che ci sono e restano, senza dubbio, ma quella che è la tendenza attuale mette in evidenza che la birra, almeno quella artigianale, sta cercando con forza altre strade che non sono solo quella dei pub. Non solo, naturalmente, però sarebbe davvero un peccato se le birre artigianali (tante, troppe?) smarrissero la loro vocazione originale....

5 aprile 2011

Il birraio della Val di Fiemme

In missione per il vino, mi capita sempre più spesso di trovarmi a bere birra. Mi è capitato anche qualche settimana fa, durante un giro in Trentino per andare a trovare gli amici di Cantina La Vis e assaggiare nuovamente il loro Pinot Nero Vigna di Saosent che mi fa letteralmente impazzire e che per questioni di tiratura limitata posso bere, e comprare, solo in loco. Ma una digressione di qualche kilometro in cerca di carne salada mi ha fatto incontrare le birre del birrificio Val di Fiemme che, grazie alle indicazioni del macellaio, si trovava poco distante. In realtà le birre di Fiemme le avevo provate, alcune, l'anno scorso in montagna dalle mie parti trovandole più che discrete. Ergo, la visita lampo al birrificio era d'obbligo. Ho potuto conoscere così Stefano Gilmozzi che, dal 1999, ha deciso di riportare in vita un'attività che in zona aveva già dei precedenti. Stefano produce cinque birre d'ispirazione tedesca. L'ultima in ordine di tempo, la Nòsa, è uscita a fine gennaio 2011, ed è prodotta ricorrendo a cinque varietà di luppolo che,
Birra Val di Fiemme
combinate insieme, dovrebbero a detta del birraio rispecchiare il profilo aromatico del luppolo selvatico che una volta cresceva abbondante in valle e che veniva impiegato dalle birrerie di un tempo (nello specifico la vecchia birreria di Predazzo). Come le altre della gamma, anche la Nòsa è una birra da bere, ma non per questo banale o anonima. I profumi sono ben distinti, puliti e il primo sorso lascia la voglia di berne ancora. La filosofia di Gilmozzi, che sta già addestrando il figlio sul processo produttivo, è di quelle da "artigiano puro": buoni prodotti, target birrario, nel senso di pub e birrerie e solo in seconda battuta ristoranti, poca comunicazione, quasi niente marketing. Funziona? Credo di sì, visto che dopo dieci anni di lavoro non ci si può reggere solo sull'entusiasmo ed è la prova che le strade per raggiungere il successo, nel campo della birra artigianale, possono essere diverse. Si tratta solo di decidere prima dove si vuole arrivare e che tipo di vita, professionale ma non solo, si vuole vivere.
Stefano Gilmozzi
Abbastanza scontato dire che, a me, la personalità di Stefano è piaciuta parecchio. Niente tirate filosofiche sulla birra artigianale come ideologia e molta sostanza. Sostanza anche nella sua Lupinus, birra che mi era apparsa misteriosa la prima volta che ne avevo sentito parlare e che avevo cominciato a comprendere un po' grazie a contributi esterni. Ero stato messo fuori strada dalla menzione in etichetta del "caffè di Anterivo" che in realtà identifica un particolare tipo di lupino, quindi un legume, coltivato storicamente nella omonima, piccola località di montagna e utilizzato, in tempi grami, come succedaneo del caffè. Il gusto di questo Lupino ricorda in effetti più il caffè d'orzo che il caffè vero e proprio, ma ha un sapore gradevole, non invadente né particolarmente amaro. La birra è molto buona, sia al naso sia al palato dove lascia una vaga traccia di cacao ma anche quella specie di dolcezza tipica proprio dei legumi. Per certi versi ricorda un po' alla lontana la Borlotta di ArteBirraia, ma è più convincente.
Ultima nota, e sincero consiglio qualora vi trovaste a passare da quelle parti, è per lo Zirmo, un'acquavite aromatizzata al cirmolo che Gilmozzi fa più per passione che per altri motivi, ma che è davvero deliziosa. Come un po' tutte le grappe al cirmolo che ho assaggiato e che tuttavia, non so se per questioni legali o per difficile reperibilità della materia prima, sono difficili da trovare in giro per le Alpi. Il cirmolo è un pino molto noto per i tipici mobili in stile "montanaro", ma le sue pignette donano un profumo e un aroma incredibile al distillato, con un immediato deja vu di baita alpina, caminetto acceso e neve fresca fuori dalla finestra...

2 aprile 2011

Patagonia Brewing

Ho sempre sostenuto che parte del fascino della birra risiede anche nel fatto che non ha limiti imposti dalle latitudini, come ad esempio, il vino. Tuttavia, andandomene in giro una settimana per la Patagonia argentina (i report quotidiani del viaggio, se li volete leggere, li trovate qui) mi sono stupito della quantità di piccole produzioni birrarie in un luogo considerato, per certi versi a buona ragione, "dimenticato da Dio". Di Argentina, in termini birrari confesso che non andavo oltre il marchio commerciale più conosciuto, ovvero la Quilmes che, tra l'altro, è presente pure in Italia.

Ora, la Quilmes la si trova dovunque in Argentina e la sua caratteristica bottiglia da mezzo litro dall'imboccatura particolarmente larga è una presenza abituale sulle tavole di pub e ristoranti (i favolosi "asador" dove si mangia agnello allo spiedo e grigliate di carne che da sole valgono il viaggio). Non solo, ma Quilmes in Argentina significa anche la variante Stout e Bock. Peccato solo che da queste parti, sebbene il freddo possa essere davvero intenso, abbiano l'abitudine di refrigerare i boccali prima di riempirli di birra. Refrigerarli al punto tale che una sottile crosticina di ghiaccio adornava il mio pieno di Stout che del resto è una stout un po' sui generis: scura ovviamente, ma poco corpo e note più che altro caramellose. Tuttavia, strana usanza a parte, la Quilmes non è la scelta unica e obbligata, lasciando perdere la triste Isenbeck assaggiata in volo tra Roma e Buenos Aires, se si vuole ordinare una birra in Patagonia. A El Calafate ad esempio, esiste la Cerveceria Sholken dove due ragazzi, Matias e Favio, producono tre birre (la Rubia, la Roja e la Nera) con luppolo coltivato in Argentina, ma più a nord. Delle tre, tutte non filtrate, ho apprezzato la Rubia, una chiara abbastanza profumata, e la Nera che sembra ispirata alle rauchbier di Bamberga con profumi leggeri di affumicatura. Niente di esaltante, sia chiaro, ma un percorso originale che merita di essere incoraggiato. Scendendo poi verso Ushuaia, che è considerata la città più australe del mondo, ecco spuntare come funghi birre a me totalmente sconosciute.
La Cerveceria Sholken a El Calafate
Alcune discrete India Pale Ale, alcune Bock, molte birre scure, anche se quasi tutte anonime, ma una scelta assai ampia per essere in un territorio poco popolato e dove la vita non presenta tutte le comodità di una moderna città occidentale. A Ushuaia sono stato in un ristorante chiamato Placeres Patagonicos che, oltre ad alcuni grandi marchi commerciali, aveva oltre una decina di birre locali, dal trittico (pilsen, pale ale e stout) della Cerveceria Cape Horn alla quasi infinita gamma proposta dalla Cerveceria El Bolson che passa dalla serie classica alla birra al miele, a quella al cioccolato (notevole, con un profilo aromatico molto caratterizzato) fino a quella al peperoncino (forse la più interessante al naso, per delle note vegetali molto fresche e una gradevole persistenza pungente al palato). Insomma, un itinerario quello fatto nella Patagonia argentina molto interessante anche sotto il profilo birrario, una presenza che seppure qualitativamente non indimenticabile mi fa riflettere sul fatto che in questo ambito c'è davvero spazio per tutti, anche all'interno dello stesso locale. La mia permanenza in Argentina si è infatti conclusa in un pub irlandese di Buenos Aires. A fianco della Guinness, che forse andava per la maggiore, c'era anche una scura e una pale ale locale di un piccolo produttore che adesso si è perso nei meandri dei miei appunti. Io ho optato per la pale ale, qualcuno al mio tavolo ha preferito la Guinness. Libertà di scelta, gran bella cosa...
Scelta birraria in Patagonia