Qualche giorno fa, una persona mi ha fatto sapere che sono molto più bravo a scrivere di vino che di birra. L'altro ieri un'altra persona, sorridendo amichevolmente, mi ha detto che di birra non scrivo molto. Sono perplesso. I giudizi vanno ascoltati sempre, buoni o cattivi che siano. Ma ci si deve anche riflettere sopra, prima di cadere nel rischio dell'autoesaltazione o nella depressione post scriptum. La prima persona ha anche aggiunto che però di birra ne so un casino, forse gli faccio addirittura impressione. La seconda non ha aggiunto niente. Se scrivo bene o male francamente non lo so. Su quanto scrivo ne ho invece l'assoluta certezza. Ho fatto i conti (con la calcolatrice del pc ovviamente, in matematica al liceo non andavo mai oltre la linea di galleggiamento). Ergo, nel mese di aprile ho picchiettato per 41.000 (quarantunomila) volte la tastiera del computer per articoli riguardanti la birra. Tanto? Poco? Decidete voi, io so solo che è stato per articoli diversi e giornali differenti. Solo la tastiera era la stessa e, incredibile ma vero, anche le dita.
19 maggio 2007
17 maggio 2007
Intrappolato dalla Trappe
Di ritorno da un viaggio in Olanda. Un brillante blitz di soli due giorni, all'insegna del non perdere tempo, per visitare un nano e un gigante ovvero l'abbazia di Konigshoeven e il gruppo Bavaria. Ne ho approfittato per sciogliere un dubbio ormai amletico che avevo durante le lezioni di "storia e geografia" birraria (a me piace chiamarle in stile "scuola elementare") quando arrivavo al "paragrafo" birre trappiste. Sicuro delle sei belghe lo sono stato molto meno di quell'unica olandese che, come la marea, una volta era trappista, poi non lo è più stata, adesso lo è di nuovo. Così, con il ritornello della sigla di Sandokan in testa ("sale e scende la marea") penso di aver risolto l'arcano. Dopo essere stati acquistati da Stella Artois, i monaci olandesi si sono visti richiedere dai confratelli belgi il logo esagonale "Authentic Trappist Product". Per quieto vivere, sono monaci del resto, il logo è stato abbandonato. Ma alla fine del 2005, in abbazia sono arrivati i giovani olandesi di Bavaria (i massimi dirigenti non hanno più di 40 anni pro capite) che, preso in affitto la birreria e pagate tutte le roialty che c'erano da pagare (e che i monaci spendono in carità cristiana) al logo ci tenevano eccome. Ergo, tavola rotonda con i trappisti del Belgio e, com'è come non è, il logo è stato ripreso. E ovviamente utilizzato. Il logo conta, eccome se conta. In America quando l'hanno saputo hanno raddoppiato le richieste. Ma, al di là di tutto, le varie La Trappe che ho assaggiato (blonde, dubbel, tripel, quadrupel, ma adesso fanno anche una witbier e una bock stagionale) hanno tutte passato il mio, modestissimo, esame. A gusto mi è piaciuta soprattutto la blonde, la tripel e, magari tenendola in cantina qualche anno, la quadrupel. A mia richiesta, il manager ha detto che di quadrupel d'annata ce ne sono. Ma le tengono sotto chiave. A proposito, a parte la blonde, meglio La Trappe in bottiglia che alla spina. Ma ce lo si poteva aspettare.
Dalla quiete monastica, il giorno dopo, siamo passati all'efficienza di Bavaria. Bandiera italiana in omaggio ad aspettarci, uffici spaziali con angoli caffè e asilo nido (esattamente come in Italia...), giovani dirigenti. Certo tutti figli di papà nel senso che sono la settima generazione della famiglia proprietaria ma, prima di poter mettere piede in birreria, tutti indiscriminatamente obbligati a farsi le ossa almeno per un paio d'anni in altre aziende dove il papà non conta un fico secco. Dove pare a loro, secondo studi e ambizioni, basta che non bussino alla porta paterna prima del tempo. Quando però vengono chiamati, sono i genitori a levare le tende. Un paio di consigli, una pacca sulle spalle e, alè, rimboccarsi le maniche. Risultato? Responsabilità, idee nuove, qualche piccolo errore, ma entusiasmo da vendere da oltre 300 anni. E questa è un'azienda di famiglia.
Che dire? Tutto esattamente come in Italia....
11 maggio 2007
Marcello Lunelli, enologo gentleman
Capita spesso, per motivi di impaginazione o perché non si rispetta il numero preciso di battute richiesto, di vedersi "tagliare" dei pezzi. Rischi del mestiere e lungi da me osare dire la battuta di Montanelli "i miei articoli non li taglia nemmeno Dio!". Non me lo posso permettere. Però, visto che la fatica l'ho fatta, ecco il testo integrale del pezzo che ho fatto su Marcello Lunelli per Vie del Gusto di maggio. Scrivere queste righe mi è piaciuto, così come mi è piaciuto il personaggio....
Da Vie del Gusto, maggio 2007
La sua prima immagine mentale legata al vino risale a quando, bambino, saliva su un vecchio cingolato Fiat arancione, tra i filari pronti alla vendemmia e sotto lo sguardo attento della madre. Marcello Lunelli ha oggi 39 anni e insieme ai cugini Camilla e Matteo rappresenta la giovane generazione che guida la casa spumantistica italiana più famosa del mondo, la trentina Ferrari. Ha le movenze eleganti di un gentiluomo inglese e il sorriso cordiale che vorresti vedere sul volto del tuo compagno di barca quando il mare comincia a farsi mosso. Eppure, dopo aver conseguito il titolo di agronomo e quello di enologo, ha fatto il tirocinio in una cantina sociale trentina: “in tuta da lavoro e a scaricare quintali di uva diraspata a colpi di badile, ovviamente insieme ad altri miei colleghi e coetanei”, poi in Germania, “e lì sono rimasto letteralmente a bocca aperta quando, appena varcata la soglia, ho visto centinaia di chili di zucchero, naturalmente da scaricare a mano, pronti per essere addizionati nel vino. Pratica illegale in Italia”. I ricordi si sovrappongono, ma Lunelli è il “figlio di papà” che si dà meno arie del mondo. Ha fatto molte esperienze senza dubbio, ha appreso la necessità di non avere pregiudizi enologici e mantenere una visione aperta delle cose in California, è stato presidente dei giovani industriali e si è costruito tutto un cursus honorum che ci si deve aspettare da chi è destinato a ereditare un’azienda solida e prestigiosa. Ma è anche uomo di spessore, “quando passi otto ore al giorno a una linea di imbottigliamento si comprendono alcuni aspetti della vita e impari a dare il giusto valore alle cose”, giovane e allo stesso tempo maturo, per dirla in termini da degustazione, è “pronto”. Pronto soprattutto a raccogliere la sfida impostagli dal blasone e dai risultati, con la consapevolezza però di poter lavorare “in un ambiente piacevole, con ottimi collaboratori e l’orgoglio di essere parte di un’azienda con una forte connotazione familiare e che ha saputo costruire qualcosa”. Si considera più “l’enologo della famiglia Lunelli” che “l’enologo dell’azienda” perché, spiega, “non sarebbe corretto nei confronti delle tante competenze professionali che sono con noi”, confessa con intelligenza e serenità di sentire in qualche misura il carico di responsabilità, “la sottile inquietudine che ti viene verso sera quando ti chiedi se hai fatto tutto giusto oppure se potevi fare meglio”, e non gli manca l’ironia quando ammette che, certamente, l’unico vino che non può mancare nel suo frigorifero è una bottiglia di brut Ferrari, quello venduto in quasi 3 milioni di pezzi. Uno spumante in effetti eccellente, elegante ma a prezzi che, per fortuna, strappano ancora il sorriso. Lo stesso di Marcello Lunelli.
Maurizio Maestrelli
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